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CAPITOLO V

Mia infermitá mortale superata, mia mortalitá,

mia amicizia, intrinseca, unica, consolidata nella Dalmazia.

Piantata la nuova reggenza e piantata la corte, ebbi otto soli giorni di tempo da studiare il mio impiego di venturiere, ivi detto d’aiutante di S. E., e di seguire il mio costume d’osservatore, nel principio del mio triennio.

Fui assalito da una febbre, che s’è dichiarata dell’abilitá delle maligne.

Vedendomi solo nel mezzo a persone che conosceva appena, aggravato da una infermitá micidiale, e in que’ princípi in una stanza provvigionale assai squallida, le di cui finestre in iscambio d’invetriate avevano le impannate di tela infracidita dal tempo e dalla pioggia, lacera e volante ad ogni soffio di vento, con un scarsissimo erario nella mia borsa, non potei impedire all’umanitá il rammemorarsi che alla piú picciola febbre, nella mia casa paterna aveva per lo meno una diligente assistenza e non mai disgiunta una serva o una sorella dal mio guanciale, che fugava le mosche molestatrici dalla mia faccia.

La poca premura che aveva di vivere mi soccorse a scacciare de’ pensieri e delle rimembranze inutili.

Mentr’era un giorno solo e ardente nella mia affannosa febbre, uno di que’ galeotti, che ravvolti in una specie di schiavina ridotta veste, cinti a traverso con una fune, entrano dagli uffiziali di quando in quando ad esibirsi a’ bassi e schifi servigi e involare qualche cosa se ben fatto vien loro, si affacciò all’uscio della mia stanza poco dissimile dalla sua, e mi chiese se mi occorreva qualche cosa da lui.

Gli donai alcune gazzette perché m’inviasse un confessore; uffizio ben differente da quello ch’egli era venuto per fare. Vidi