Memorie di Carlo Goldoni/Parte terza/XXVI

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO XXVI.

I Volponi, opera comica in tre atti. — Arrivo degli attori dell’Opera Comica Italiana a Parigi per recitare sul teatro dell’Opera.

Nell’anno 1777 mi fu domandata una nuova opera buffa per Venezia, e benchè avessi fatto proposito di non farne più, nulladimeno, nella speranza che la medesima fosse per essermi in Parigi di qualche vantaggio, acconsentii per compiacere i miei amici, e composi un dramma in maniera che potesse piacere all’una e all’altra nazione egualmente. Il titolo di essa era: I Volponi. Questi erano cortigiani divenuti gelosi di un forestiero, cui usavano le maggiori garbatezze per divertirlo, mentre in segreto tramavano cabale per rovinarlo. Offriva dunque una tale composizione intreccio, brio, effetto, e ne risultava una lezione di morale utilissima. In questo tempo si trattava appunto di far venire a Parigi gli attori dell’opera comica italiana, da noi chiamati i buffi, ed in Parigi les bouffons. Questo vocabolo in Italia sarebbe ingiurioso: non è tale in Francia, e non è, in sostanza, che una cattiva traduzione del primo. La musica della Buona figliuola del signor Piccini, quella della Colonia del signor Sacchini, ed i progressi che giornalmente faceva a Parigi il gusto del canto italiano, determinarono i direttori dell’Opera ad introdurre questo spettacolo forestiero, le cui rappresentazioni furono esposte sul gran teatro di questa città. Tale idea solleticava infinitamente il mio amor proprio; anzi ebbi la temerità di credermi necessario per l’esecuzione di essa. Non vi era alcuno che conoscesse l’opera comica italiana meglio di me, sapendo che da parecchi anni altro non rappresentavasi in Italia che farse, la cui musica era eccellente, e detestabile la poesia.

Prevedevo bene che cosa conveniva fare per render piacevole in Parigi questo spettacolo: bisognava, cioè, creare uno stile diverso; era necessario comporre nuovi drammi sul gusto francese. Più volte avevo fatto per Londra questa specie di lavoro, ed ero sicuro del fatto mio, nè altri meglio di me poteva rendersi utile in tale occasione. Sapevo per esperienza quanto questo lavoro fosse difficile e penoso, ma mi ci sarei nonostante rivolto con un infinito piacere, sì per il vantaggio che potea ridondarmene, come per l’onore della mia nazione. Oltre di che era da scommettere, che il teatro francese, facendo venire attori forestieri, non si sarebbe contentato della loro vecchia musica, e ne avrebbe fatto comporre una nuova al signor Piccini che ivi appunto si trovava, ovvero al signor Sacchini che stava a Londra. Tenevo dunque pronta la mia opera comica, ed ero quasi sicuro che me ne sarebbero state ordinate altre, poichè non credeva convenirsi alla dignità del primario spettacolo della nazione di trattenere per lungo tempo il pubblico con una musica cantata e ricantata nelle accademie e nelle conversazioni di Parigi. Aspettavo pertanto che me ne fosse fatta parola, o di esser sopra ciò consultato, e messo all’opera... ma che! nessuno me ne parlò. Arrivarono a Parigi gli attori italiani, tra i quali ne conoscevo alcuni; non fui però a vederli, nè intervenni alla prima loro recita. Ve ne erano tra essi dei buoni, ve n’erano dei mediocri, e la loro musica era [p. 336 modifica] eccellente: ciò non ostante, uno spettacolo di tal sorta cadde, come avevo previsto, a motivo dei drammi, che eran fatti per dispiacere in Francia, ed essere di disonore all’Italia.

Il mio amor proprio avrebbe dovuto sentire una certa compiacenza vedendo verificata appieno la mia predizione; ma, all’opposto, ne fui veramente afflitto. Quantunque non fosse troppo di mio genio l’opera comica, ciò non ostante sarei stato lietissimo se avessi udito musica italiana sopra parole italiane; parole, per altro, che si fossero potute leggere con diletto, e tradurre in francese senza rossore. Queste cattive Opere comparvero inoltre al pubblico tradotte anche e stampate, e la miglior traduzione di esse era appunto la meno sopportabile; più i traduttori si sforzavano dì esporre il testo fedelmente, più facevano conoscere le sciocchezze degli originali. Io m’era figurato che questa compagnia italiana fosse per andarsene alla fine dell’anno; ma, per quello che vedevasi, era impegnata per due: e per questa ragione restò in Parigi anche l’anno seguente. Fu appunto in questo secondo anno, che mi si fece l’onore di cercarmi, e mi fu portato uno di quei soliti cattivi drammi da accomodare. Era troppo tardi, ed il male era già fatto: una simil sorta di spettacolo era ormai troppo screditata. Sul bel principio avrei potuto sostenerlo, ma dopo la crisi da esso sofferta credetti di non poterlo più far risorgere. Conviene anche dire, che io mi sentiva punto per essere stato posto in dimenticanza nel momento più opportuno, nè mi ricordo di aver provato, da moltissimo tempo, un rincrescimento eguale a questo. Dicevano taluni, per consolarmi, che i direttori dell’Opera stimarono l’impiego, che avrebbero potuto offrirmi, troppo a me inferiore. Ma i signori direttori non sapevano di che cosa si trattasse; se essi avessero avuto la bontà di domandare su tal proposito il mio parere, avrebbero allora veduto essere eglino in necessità di avere un autore, e non un rappezzatore. Vi erano anche altri che andavano dicendo (e forse senza il menomo fondamento) che temevasi che il Goldoni fosse troppo caro. Quando avessero saputo prendermi, avrei lavorato a solo titolo di onore, e sarei poi stato caro se avessero voluto mercanteggiare; ma anche in questo caso il mio lavoro li avrebbe ben compensati, ed oso dire che questo spettacolo esisterebbe ancora a Parigi.