Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XXXVII

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO XXXVII.

Mia prima visita al Cardinal Nipote. — Mia presentazione al Santo Padre. — Mia balordaggine. — Generosa esibizione del cardinale Porto-Carrero e dell’ambasciatore di Venezia. — Alcune parole sulla chiesa di San Pietro di Roma. — Carattere del mio ospite. — Sue attenzioni a mio riguardo.

Mentre che i comici si preparavano per provare le respettive loro parti, l’unico mio pensiero fu di veder Roma e le persone alle quali ero raccomandato. Aveva una lettera del ministro di Parma per il cardinale Porto-Carrero ambasciatore di Spagna, ed una del principe Rezzonico, nipote del pontefice regnante, per il cardinale Carlo Rezzonico suo fratello.

Incominciai dal presentare quest’ultima al cardinal Padrone, che mi accolse con benignità somma, e con tutta la familiarità di cui ero onorato dai suoi illustri parenti di Venezia; inoltre non tardò molto a procurarmi l’udienza del Santo Padre, al quale venni pochi giorni dopo presentato solo solo, e nel suo gabinetto particolare; favore non tanto comune.

Questo pontefice veneziano, del quale avevo avuto l’onore di far conoscenza nella sua città episcopale di Padova, e la cui esaltazione era stata cantata dalla mia Musa, mi fece l’accoglienza più graziosa; mi trattenne per tre quarti d’ora continui, parlandomi sempre de’ suoi nipoti e delle sue nipotine, e dimostrando un estremo piacere per le nuove che ero in grado di comunicargli su di loro. Indi suonò il campanello ch’era sulla sua tavola, e questo fu il segno del mio congedo. Nell’andarmene facevo profonde riverenze, e ringraziamenti; ma il Santo Padre non pareva soddisfatto; agitava i piedi, le braccia, tossiva, mi guardava fisso, ma non dicevami cosa alcuna. Che balordaggine dal canto mio! Penetrato dall’onore che ricevevo, ed estatico per tal piacere, mi ero scordato di baciare il piede al successore di san Pietro. Finalmente ritorno in me stesso, e mi prostro; son ricolmato da Clemente decimo terzo di benedizioni, e parto mortificato della mia stolidezza, e nel tempo stesso edificato della indulgenza di lui. Continuai le mie visite per parecchi giorni. Il cardinale Porto-Ferrero mi [p. 244 modifica] offrì un posto alla sua tavola, e una carrozza a mia disposizione; e sua eccellenza il cavalier Correro, ambasciatore di Venezia, mi fece le medesime esibizioni; io ne profittai, particolarmente della carrozza, la quale è in Roma necessaria nel modo istesso che a Parigi. Vedevo cardinali, principi, principesse, ministri esteri; e quando ero ricevuto, mi veniva il giorno dopo fatta la visita dagli staffieri, i quali si portavano da me per complimentarmi sul mio arrivo, onde conveniva a questi dar tre paoli, a quelli dieci, secondo il grado dei loro padroni, e tre zecchini a quelli del papa; questo è l’uso del paese; il prezzo è fatto, non vi è da stiracchiare. Nel fare le mie visite, non ometteva di osservare nel medesimo tempo i preziosi monumenti di quella città una volta capitale del mondo, ed ora sede dominante della religione cattolica.

Non farò menzione dei capilavori che son noti a tutto il mondo, mi limiterò soltanto a richiamare alla memoria l’effetto che produsse sul mio animo e sui miei sensi la veduta di San Pietro di Roma. Avevo cinquantadue anni la prima volta che vidi questo sacro edifizio. Dopo l’età della ragione fino a quel tempo ne avevo inteso parlare con entusiasmo: avevo percorso gl’istorici ed i viaggiatori che ne fanno esatte descrizioni e ragionati racconti, e però ero di parere che vedendolo io medesimo, la prevenzione avrebbe forse diminuito in me la maraviglia: ma che! tutto ciò che avevo inteso era al di sotto di quanto vedevo: tutto quello che da lontano parevami esagerato, mi si aggrandiva sotto gli occhi infinitamente. Io non sono intendente di architettura, nè andrò ora a studiare i termini d’arte per esprimere l’incanto che provai; ma son persuaso che ciò dipendeva da un’esattezza di proporzioni in tutta quell’immensa estensione.

Quanto da una parte gli oggetti di costruzione e d’ornamento destano maraviglia, altrettanto dall’altra il santuario di questa basilica eccita devozione. I corpi dei santi Pietro e Paolo sono nei sotterranei dell’altar maggiore, ed i Romani, che generalmente sono piuttosto devoti, non omettono di concorrervi con frequenza, in attestato della loro venerazione verso i principi degli apostoli. Il mio ospite, per esempio, non avrebbe lasciato per tutto l’oro del mondo di fare la sua orazione alla cattedrale: amante com’egli era dei divertimenti, tornava talvolta a casa alla mezzanotte, e ricordandosi di non aver fatto la visita ai santi suoi protettori, benchè restasse in un quartiere lontanissimo dalla chiesa di San Pietro, nulladimeno vi andava sempre, faceva la sua preghiera alla porta, e se ne ritornava contentissimo.

Bisogna che in questa occasione io faccia conoscere al mio lettore quest’uomo, che, a dir vero, aveva alcune singolarità, ma era di un cuore eccellente e d’una sincerità senza pari. Era l’abate *** corrispondente di parecchi vescovi della Germania riguardo agli affari della Dateria. Mi aveva allogato un quartierino di quattro stanze, con otto finestre di fronte alla più bella strada di Roma, detta il Corso, ove tutti si adunavano per vedere le corse dei barberi e le maschere nel carnevale.

L’abate *** aveva una moglie ed una figlia assai belle, non era ricco, ma si trattava bene, ed io stava a dozzina con lui. Ogni giorno veniva in tavola un piatto fatto di sua mano, nè mai lasciava di avvisare i commensali, che quello era un piatto pel signor avvocato Goldoni cucinato dal suo servo ***, e soggiungeva, che nessuno osasse toccarlo senza il permesso del signor avvocato. Dava talvolta accademie in casa sua; la signorina cantava a maraviglia. [p. 245 modifica] ed era accompagnata dai cantanti e suonatori di prim’ordine che si trovano a Roma copiosissimi in ogni classe e in ogni ceto. Al dire del mio caro abate *** tutti questi divertimenti si davano sempre in riguardo del signor avvocato Goldoni, ond’io non potevo fargli maggior dispiacere, che andare a pranzo fuori, o passar la sera in qualche altro luogo. Entrando un giorno in casa, e sentendo dire che non desinavo quella mattina seco lui, andò fortemente in collera, e ne rimproverò mia moglie. — Ebbene, nessuno mangerà (andava dicendo) la pietanza da me fatta per l’avvocato Goldoni. — Indi passando in cucina, dà un’occhiata malinconica alle vivande deliziose da lui stesso fatte con tanto studio e piacere, e vinto dalla collera, getta furiosamente nel cortile la cazzaruola. La sera torno, e l’abate era a letto, nè volle vedermi; tutti gli altri ridevano, ed io, all’opposto, ne provavo sommo rincrescimento; ma in questo tempo il servitore mi diè il biglietto d’invito per intervenire il giorno dopo alla prova della mia commedia; ciò m’importava più d’ogni altra cosa, onde posi in dimenticanza il caro abate, e dormii molto tranquillo.