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210 parte seconda


vinto dalle mie maniere, mi fa sperar tutto. Se fosse stato solo, mi avrebbe anche lasciato partire nel momento medesimo; ma le guardie non avrebbero mai aderito di perdere i loro diritti. Ordina pertanto che si ricarichi il baule, e mi fa ritornare alla dogana del Ponte. Il direttore delle gabelle non vi era, onde il mio protettore andò a cercarlo egli medesimo a Ferrara; ritornò in capo a tre ore, e portò seco l’ordine della mia libertà, mediante lo sborso di poco danaro a titolo di diritto sul mio equipaggio. Mia intenzione era di ricompensare in qualche modo questo ministro del servigio che mi aveva reso; ma egli ricusò a tutto costo due zecchini, che lo pregai di accettare, ed anche la mia cioccolata di cui volevo fargli parte. Altro non mi restò dunque che ringraziarlo ed ammirarlo nel tempo stesso. Appuntai bensì il suo nome sul mio libretto di ricordi, e gli promisi un esemplar della nuova edizione delle mie Opere, ed egli accettò con somma gratitudine l’offerta. Montai in calesse, ripresi il mio viaggio, ed arrivai la sera a Bologna.

In questa città appunto, madre delle scienze e Atene d’Italia, era stato fatto il lamento, alcuni anni avanti, che la mia riforma tendeva alla soppressione delle quattro maschere della Commedia italiana. I Bolognesi si sentivan portati a questo genere di commedie più che gli altri; anzi vi erano fra loro alcune persone di merito le quali per divertimento creavano commedie a braccia, che, recitate poi assai bene da altri cittadini abilissimi, formavano la delizia del lor paese. Adunque i dilettanti dell’antica commedia vedendo che la nuova faceva progressi così rapidi, andavano strepitando dovunque, ch’era una cosa indegna per un Italiano il portar pregiudizio a un genere di componimento comico, nel quale appunto l’Italia era divenuta celebre, e che verun’altra nazione aveva saputo imitare. Ma quello che faceva anco maggior breccia negli animi sollevati era la soppressione delle maschere minacciata dal mio metodo; dicendosi che per due intieri secoli questi personaggi erano stati il divertimento d’Italia, e che perciò non conveniva assolutamente privarla di una maniera comica ch’ella stessa aveva creato e per tanto tempo sì ben sostenuto.

Avanti di esporre ciò che allora avevo in animo su questo particolare, penso che non possa dispiacere al mio lettore di essere intrattenuto per pochi minuti sopra l’origine, su l’uso ed effetto di queste quattro maschere. La commedia, ch’è stata in ogni tempo lo spettacolo favorito delle nazioni colte, aveva avuto la stessa sorte delle arti e delle scienze, ed essa pure era stata involta nelle rovine dell’impero e nella decadenza delle lettere. Nel seno fecondo degli Italiani non giacque però mai affatto estinto il germe comico. I primi che si occuparono per farlo rinascere, non trovando in un secolo d’ignoranza scrittori abili, ebbero l’ardire di mettere insieme alcune selve comiche, di distribuire in atti e in scene, e di esporne all’improvviso i sentimenti, i pensieri ed i frizzi fra loro avanti concertati. Quelli che sapevano leggere (e questi non erano già i grandi, o i ricchi), trovarono che nelle commedie di Plauto e di Terenzio vi erano sempre padri ingannati, figli dissoluti, giovani innamorate, servitori birbanti, cameriere corrotte: indi percorrendo le differenti regioni d’Italia, presero da Venezia e da Bologna i padri, i servi da Bergamo, e dagli Stati di Roma e dalla Toscana le amorose, gli amorosi e le servette. Nè si ricerchino prove in iscritto, poichè si tratta di un tempo in cui non si scriveva: eccovi bensì come io provo la mia asserzione. Il Pantalone è sempre stato veneziano; ed il Brighella e l’Arlecchino sempre bergamaschi;