Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXVIII
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CAPITOLO XXVIII.
- Mio arrivo a Milano. — Mia prima visita al residente di Venezia. — Lettura della mia Amalasunta.
Eccomi a Milano; eccomi in questa metropoli della Lombardia, antico retaggio del dominio spagnuolo, ove avrei dovuto comparire col mantello e col collare secondo la foggia castigliana, se la musa satirica non mi avesse allontanato dal posto a cui ero destinato. Ora ci vengo a contender l’onor del coturno; non avrò per altro la gloria del trionfo che calzando il socco. Andai ad alloggiare al Pozzo, uno dei più famosi alberghi di Milano. Per presentarsi con vantaggio, se uno non è ricco, bisogna almeno comparir di esserlo. Il giorno appresso portai al residente di Venezia la lettera di raccomandazione della signora governatrice. Era allora in tale impiego il signor Bartolini, segretario del Senato, stato già vicebailo a Costantinopoli, uomo ricchissimo, magnifico, e considerato in Milano in egual modo che a Venezia. Pochi anni dopo fu dichiarato per scrutinio gran cancelliere della Repubblica, e godè per lungo tempo, anzi fino alla sua morte, di questa carica, che dà il titolo di eccellenza a chi l’esercita, ed il posto immediatamente dopo la nobiltà dominante. L’inviato di Venezia, essendo il solo ministro estero che risieda a Milano, a motivo dei giornalieri affari che corrono tra i due Stati limitrofi, gode la più alta considerazione, e va del pari con i gran signori del ducato di Milano. Questo ministro mi accolse con una bontà ingenua, e in modo da far coraggio. Faceva gran caso della dama mia protettrice, e mi offrì tutto quello che poteva dipendere dalla sua persona e dal suo credito; ma con un’aria grave e ministeriale mi dimandò la cagione che mi conduceva a Milano, e quali fossero le avventure motivate nella lettera dalla signora Bonfaldini. Era giusta la domanda, e semplice fu la mia risposta. Gli raccontai dal principio alla fine tutta l’istoria della zia e della nipote: il signor residente conosceva i soggetti, il mio racconto adunque lo fece molto ridere, e, riguardo al timore che io dimostrava di essere inquisito e molestato, mi assicurò che in Milano non avevo nulla da temere. La naturalezza del mio discorso, e l’esposizione delle mie avventure avean fatto capire al ministro, che non ero ricco: mi domandò pertanto nobilmente, se avevo per allora bisogno di qualche cosa; lo ringraziai. Mi trovavo ancora qualche zecchino di Bergamo, ed era meco la mia opera; non avevo bisogno di alcuno. Il signor Bartolini m’invitò a pranzo il giorno seguente; accettai l’invito, presi congedo, e me ne andai. Ero impaziente di presentare la mia composizione, e di farne la lettura. Eravamo appunto di carnevale, vi era Opera a Milano, e conoscevo Caffariello primo attore della medesima, come pure il direttore e compositore dei balli e sua moglie, prima ballerina, il signore e la signora Grossatesta. Credei più conveniente e più vantaggioso per me farmi presentare al direttore degli spettacoli di Milano da persone cognite. Era appunto quel giorno un venerdì, giorno di vacanza quasi per tutto in Italia; la sera adunque andai in casa della signora Grossatesta, che teneva conversazione, ed alla quale concorrevano gli attori, le attrici, e i ballerini dell’Opera. Questa eccellente ballerina, mia compatriota, da me conosciuta a Venezia, mi ricevè garbatissimamente, ed il marito di lei, che era modenese, uomo di molto spirito e cultissimo, disputò molto con sua moglie sopra l’articolo della mia patria, sostenendo con molta galanteria essere io originario della sua. Era molto presto, ed eravamo quasi soli; profittai dunque del momento per far noto ad essi il mio disegno. Ne furono incantati: mi promisero di presentarmi, e mi anticiparono le loro congratulazioni riguardo all’accoglienza favorevole della mia opera. Andava sempre più aumentandosi la conversazione: arriva Caffariello, mi vede, mi riconosce, mi saluta con aria da Alessandro, e prende il suo posto accanto alla padrona di casa. Pochi minuti dopo è annunziato il conte Prata, uno dei direttori degli spettacoli, e quello appunto che conosceva più degli altri l’arte drammatica. La signora Grossatesta mi presenta al signor conte, gli parla della mia opera, ed egli s’impegna a propormi all’assemblea della direzione; avrebbe bensì avuto caro che io mi fossi compiaciuto di dargli qualche idea della medesima privatamente. La mia compatriota pure avrebbe gradito di sentirla: ed io nulla più desiderava che di leggerla. È avvicinato subito un tavolino, una bugia, e ciascuno prende il suo posto. Io mi accingo alla lettura, e annunzio il titolo di Amalasunta; Caffariello canta il nome di Amalasunta, e gli par lungo e ridicolo: tutti ridono: Non rido però io, grida allora la signora; e il rosignuolo tace. Leggo i nomi dei personaggi, che nella mia composizione erano nove; ad un tratto si sente una vocina, che si partiva dalla bocca di un vecchio castrato, il quale cantava nei cori, e gridava come un gatto: Troppi, troppi, vi sono almeno due personaggi di più. — Vedevo bene di essere in cattive acque, e volevo desistere dalla mia lettura; ma il signor Prata fece tacer l’insolente, che non aveva il merito di Caffariello, e a me rivolto disse: Signore, è vero che ordinariamente non vi sono in un dramma che sei o sette personaggi; quando però l’opera n’è degna, si soggiace con piacere alla spesa di due personaggi di più: abbiate, egli soggiunse, abbiate pure la compiacenza di proseguir la lettura, se vi aggrada. Riprendo dunque la mia lettura. Atto primo: scena prima: Clodesilo, e Arpagone. Ecco il signor Caffariello, che mi domanda qual sia il nome del primo soprano dell’opera. — Signore, io gli dissi, è Clodesilo. — Come? egli rispose, voi fate aprir la scena dal primo attore, e lo fate comparire nel tempo in cui vien la gente, cerca posto, e fa strepito? per bacco! io non sarei vostro primo uomo davvero. — Che pazienza! il signor Prata prende la parola, e soggiunge: Vediamo se la scena è piacevole. — Leggo la prima scena, e mentre recito i miei versi, un estenuato musico trae di tasca un rotolo di fogli di musica, e va al cembalo per ripassare un’aria della sua parte. La padrona di casa mi fa allora mille scuse, ed il signor Prata mi prende per la mano, conducendomi in uno stanzino da toeletta, lontanissimo dalla sala. Quivi il conte mi fa sedere, siede egli pure accanto a me, mi placa riguardo alla villana condotta di una compagnia di simili stolidi, e mi prega di far la lettura del mio dramma a lui solo per poterne giudicare, e dir sinceramente il suo parere. Fui contentissimo di quest’atto di compiacenza, lo ringraziai, e intrapresi la lettura della mia composizione leggendo dal primo verso fino all’ultimo, senza risparmiargli una virgola. Mi ascoltò attentamente e con pazienza, e giunto al termine, ecco a un bel circa il risultato della sua attenzione e del suo giudizio: — Mi pare, egli disse, che non abbiate male studiata l’arte poetica di Aristotele e di Orazio, e che abbiate scritto la vostra composizione secondo i veri principii della tragedia. Voi dunque non sapevate che il dramma in musica fosse un’opera imperfetta, sottoposta a regole ed usi, privi, è vero, di senso comune, ma che bisogna seguitare a rigor di lettera? Se foste stato in Francia, avreste potuto darvi maggior pensiero per piacere al pubblico, ma qui bisogna rifarsi dal piacere agli attori ed alle attrici, bisogna contentare il compositore di musica, convien consultare il pittore delle decorazioni: ogni cosa ha le sue regole, e sarebbe un delitto di lesa drammaturgia, se si osasse di violarle, e non si osservassero. Ascoltate (egli proseguì), sono per indicarvi alcune di queste regole, che sono immutabili, e che voi non conoscete. Ciascuno dei tre principali soggetti del dramma dee cantar cinque arie: due nel primo atto; due nel secondo, ed una nel terzo. La seconda attrice, ed il secondo soprano, non possono averne che tre; e le ultime parti debbono contentarsi di una, o di due al più. L’autore delle parole dee somministrare al musico le differenti ombre che formano il chiaroscuro della musica, ed osservar bene che non vengano di seguito due arie patetiche, essendo inoltre necessario spartire con la medesima precauzione le arie di bravura, le arie di azione, di mezzo-carattere, i minuet, ed i rondò. Convien sopratutto badar bene di non dare arie di affetto e di commozione, o arie di bravura, o rondò alle seconde parti. Bisogna che questa povera gente si contenti di ciò che loro è assegnato, essendo ad essi proibito il farsi onore. — Il signor Prata voleva dir di più. — Basta così, io ripresi, o signore, non vi date la pena di dirmi altro. — Lo ringraziai nuovamente, e presi da lui congedo. Conobbi allora che le persone che avean dato giudizio della mia composizione a Brescia, avevano ragione. Rilevai che il conte Trissino di Vicenza aveva anche più ragione degli altri, e che io solo avevo il torto.