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capitolo xxviii 79

Venezia, mi ricevè garbatissimamente, ed il marito di lei, che era modenese, uomo di molto spirito e cultissimo, disputò molto con sua moglie sopra l’articolo della mia patria, sostenendo con molta galanteria essere io originario della sua. Era molto presto, ed eravamo quasi soli; profittai dunque del momento per far noto ad essi il mio disegno. Ne furono incantati: mi promisero di presentarmi, e mi anticiparono le loro congratulazioni riguardo all’accoglienza favorevole della mia opera. Andava sempre più aumentandosi la conversazione: arriva Caffariello, mi vede, mi riconosce, mi saluta con aria da Alessandro, e prende il suo posto accanto alla padrona di casa. Pochi minuti dopo è annunziato il conte Prata, uno dei direttori degli spettacoli, e quello appunto che conosceva più degli altri l’arte drammatica. La signora Grossatesta mi presenta al signor conte, gli parla della mia opera, ed egli s’impegna a propormi all’assemblea della direzione; avrebbe bensì avuto caro che io mi fossi compiaciuto di dargli qualche idea della medesima privatamente. La mia compatriota pure avrebbe gradito di sentirla: ed io nulla più desiderava che di leggerla. È avvicinato subito un tavolino, una bugia, e ciascuno prende il suo posto. Io mi accingo alla lettura, e annunzio il titolo di Amalasunta; Caffariello canta il nome di Amalasunta, e gli par lungo e ridicolo: tutti ridono: Non rido però io, grida allora la signora; e il rosignuolo tace. Leggo i nomi dei personaggi, che nella mia composizione erano nove; ad un tratto si sente una vocina, che si partiva dalla bocca di un vecchio castrato, il quale cantava nei cori, e gridava come un gatto: Troppi, troppi, vi sono almeno due personaggi di più. — Vedevo bene di essere in cattive acque, e volevo desistere dalla mia lettura; ma il signor Prata fece tacer l’insolente, che non aveva il merito di Caffariello, e a me rivolto disse: Signore, è vero che ordinariamente non vi sono in un dramma che sei o sette personaggi; quando però l’opera n’è degna, si soggiace con piacere alla spesa di due personaggi di più: abbiate, egli soggiunse, abbiate pure la compiacenza di proseguir la lettura, se vi aggrada. Riprendo dunque la mia lettura. Atto primo: scena prima: Clodesilo, e Arpagone. Ecco il signor Caffariello, che mi domanda qual sia il nome del primo soprano dell’opera. — Signore, io gli dissi, è Clodesilo. — Come? egli rispose, voi fate aprir la scena dal primo attore, e lo fate comparire nel tempo in cui vien la gente, cerca posto, e fa strepito? per bacco! io non sarei vostro primo uomo davvero. — Che pazienza! il signor Prata prende la parola, e soggiunge: Vediamo se la scena è piacevole. — Leggo la prima scena, e mentre recito i miei versi, un estenuato musico trae di tasca un rotolo di fogli di musica, e va al cembalo per ripassare un’aria della sua parte. La padrona di casa mi fa allora mille scuse, ed il signor Prata mi prende per la mano, conducendomi in uno stanzino da toeletta, lontanissimo dalla sala. Quivi il conte mi fa sedere, siede egli pure accanto a me, mi placa riguardo alla villana condotta di una compagnia di simili stolidi, e mi prega di far la lettura del mio dramma a lui solo per poterne giudicare, e dir sinceramente il suo parere. Fui contentissimo di quest’atto di compiacenza, lo ringraziai, e intrapresi la lettura della mia composizione leggendo dal primo verso fino all’ultimo, senza risparmiargli una virgola. Mi ascoltò attentamente e con pazienza, e giunto al termine, ecco a un bel circa il risultato della sua attenzione e del suo giudizio: — Mi pare, egli disse, che non abbiate male studiata l’arte poetica di Aristotele e di Orazio, e che abbiate