Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XIX
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CAPITOLO XIX.
- Sempre a Chiozza. — Assenza di mio fratello minore. — Mio nuovo impiego. — Aneddoto di una religiosa e di una educanda.
Mio padre mi ricondusse a Chiozza, e mia madre, ch’era piena di pietà senza esser bigotta, fu molto contenta di rivedermi nella solita disposizione di animo. Le divenivo sempre più caro e meritevole d’attenzione a motivo dell’assenza del di lei figlio minore. Mio fratello, destinato già per il militare, era partito per Zara, capitale della Dalmazia. Fu indirizzato al signor Visinoni, cugino di mia madre, capitano dei dragoni, ed aiutante maggiore del provveditor generale di quella provincia, la quale appartiene alla Repubblica di Venezia. Questo bravo uffiziale, che tutti i generali che si succedevano a Zara volevano aver presso di sè, si era incaricato dell’educazione di mio fratello, che egli collocò in seguito nel suo reggimento.
In quanto a me, non sapevo che cosa dovesse esserne. Avevo provati nell’età di ventun’anno tanti sinistri accidenti, mi erano accadute tante catastrofi singolari, tante avventure disgustose, che non mi faceva più alcuna illusione, e non vedevo altro partito nel mio spirito che l’arte drammatica, che amavo sempre, e che avrei intrapresa da gran tempo, se fossi stato padrone della mia volontà. Mio padre dolente di vedermi divenuto lo scherzo della fortuna, non si perdè punto d’animo in certi casi, che divenivano seri per lui e per me. Aveva fatto spese considerabili ed inutili per darmi uno stato, ed avrebbe voluto procurarmi un impiego decente e lucroso, che non gli fosse di dispendio. Non era facile a trovarsi; lo trovò non ostante, e tanto di mio genio, che posi in dimenticanza tutte le perdite che avevo fatte, e non ebbi più nulla che mi rincrescesse.
La Repubblica di Venezia manda a Chiozza per governare un nobile veneziano col titolo di potestà; questo conduce seco un cancelliere per il criminale, impiego che corrisponde a quello di luogotenente criminale in Francia, e questo cancelliere criminale deve avere nel suo uffizio un aiuto col titolo di coadiutore.
Questi posti sono più o meno lucrosi, secondo i luoghi in cui si esercitano; sono però sempre piacevolissimi, poichè si sta alla tavola del governatore, si fa conversazione con sua eccellenza si vede ciò che vi è di più grande nella città, e, per poco che uno lavori, se la passa molto bene. Mio padre godeva la protezione del governatore, che in quel tempo era il nobile Francesco Bonfaldini, se la passava in ottima armonia col cancellier criminale, e conosceva molto il coadiutore. Alle corte, mi fece ricever per aggiunto a quest’ultimo. La durata dei governi veneti è determinata: si varian sempre in capo a sedici mesi. Quando entrai nel posto, n’eran già passati quattro; e poi, essendo io soprannumerario, non potevo pretendere veruna sorte di emolumento; godevo bensì tutte le delizie della società, buona tavola, molto giuoco, accademie, balli, festini. Era un impiego d’incanto; ma siccome non son cariche permanenti, ed è in arbitrio del governatore di darne la commissione a chi più gli pare, vi sono alcuni di questi cancellieri, che marciscono nell’inazione, e ve ne sono ancora di quelli, che passano avanti agli altri, e non hanno tempo di riposarsi. Il solo merito personale li fa ricercare, ma il più delle volte le protezioni la vincono. Ero prevenuto della necessità di assicurarmi una reputazione, e nella qualità di soprannumerario cercavo tutti i mezzi d’istruirmi e di rendermi utile. Il coadiutore non amava troppo il lavoro; io glielo risparmiava quanto mi era possibile, e in capo a qualche mese mi resi abile al par di lui. Non tardò molto ad accorgersene il cancelliere, e senza passare per il canale del suo coadiutore mi dava commissioni spinose, ed io ebbi la fortuna di contentarlo. La procedura criminale è una lezione importantissima per la cognizione dell’uomo. Il colpevole cerca di distruggere il suo delitto, o di diminuirne la bruttezza; egli è naturalmente avveduto, o lo diviene per timore; sa di dover fare con gente istruita, con gente del mestiere, ma pure non dispera di poterla ingannare. La legge ha prescritte ai criminalisti certe formule d’interrogazione, che bisogna seguitare, affinchè l’interrogatorio non sia fraudolento, e la debolezza e l’ignoranza non sia sorpresa. Pure bisogna un poco conoscere o procurar d’indovinare il carattere e l’interno dell’uomo che si deve esaminare, e, tenendo la via di mezzo tra il rigore e l’umanità, dee cercarsi lo svolgimento della verità senza violenza. Quello che più m’importava era il sunto del processo, e la relazione per il mio cancelliere, dal qual sunto e dalla qual relazione dipendono il più delle volte lo stato, l’onore e la vita di un uomo. I rei son difesi, la materia è discussa, ma la prima impressione vien dal rapporto. Guai per quelli che fanno il sommario dei processi senza i necessari lumi, e delle relazioni senza ponderazione! Nè mi state a dire, caro lettore, che io mi esalto: voi vedete, che quando cado in errore non me la risparmio; convien dunque che io mi compensi, quando sono contento di me. I sedici mesi della residenza del potestà eran prossimi al loro termine. Il nostro cancellier criminale era di già destinato per Feltre, e mi propose il posto di primo coadiutore, se volevo seguirlo: incantato da questa proposizione, presi il tempo conveniente per parlarne a mio padre, e il giorno appresso furono fissate le nostre convenzioni. Finalmente eccomi stabilito. Fin allora non avevo guardati gl’impieghi che da lontano; possedendone uno, ch’era di mio piacere e che mi conveniva, mi ero assolutamente proposto di non lasciarlo; ma l’uomo propone, e Dio dispone.
Alla partenza del nostro governatore di Chiozza ognuno si diede moto per fargli onore; i belli spiriti della città, se pure ve n’erano, fecero un’adunanza letteraria, nella quale fu celebrato in versi ed in prosa il pretore illustre, che li aveva governati. Cantai io pure tutte le glorie dell’eroe della festa, e particolarmente mi estesi sulle virtù e qualità personali della signora governatrice. L’uno e l’altra avevano molta bontà per me, ed a Bergamo, ove io li ho veduti in carica qualche tempo dopo, ed a Venezia, ove sua eccellenza era stato insignito del grado di senatore, mi hanno sempre onorato della loro protezione.
Tutti partirono: io restai a Chiozza, aspettando che il signor Zabottini (questo era il nome del cancelliere) mi chiamasse a Venezia per il viaggio di Feltre. Avevo sempre coltivata la conoscenza delle religiose di San Francesco, ove si trovavano bellissime educande, e la signora B*** ne aveva una sotto la sua direzione, bellissima, ricchissima ed amabile. Essa mi sarebbe moltissimo andata a genio, ma la mia età, il mio stato, la mia fortuna non potevano permettermi di accarezzare una tale idea. La religiosa per altro non mi toglieva di speranza, e quando andavo a trovarla, non mancava mai di fare scendere la signorina al parlatorio. Sentivo che mi ci sarei affezionato a buono, e la direttrice ne pareva contenta; pure io non sapeva persuadermene. Un giorno però le parlai della mia inclinazione e del mio timore; mi fece coraggio, e mi confidò il segreto. Quella signorina aveva del merito e dei beni; ma vi era dell’oscuro sopra la di lei nascita. Questo piccolo difetto è nulla, diceva la dama velata; la giovine è savia e bene educata, vi sto garante del suo carattere e della sua condotta. Ha un tutore, continuò a dire, e bisognerà guadagnarselo, ma lasciate fare a me. È vero che questo tutore, il quale è vecchissimo e rovinato nella salute, ha qualche pretensione sopra la pupilla, ma ha torto, e... siccome in questo ci ho interesse ancor io, lasciate fare a me, replicò di nuovo, disporrò le cose per il meglio. — Confesso, che dopo questo discorso, dopo questa confidenza, e questo incoraggiamento cominciai a credermi felice. La signorina N*** non mi vedeva di mal occhio, ed io riguardava la cosa per fatta. Tutto il convento si era accorto della mia inclinazione per l’educanda, e vi furono delle signorine, che conoscendo gl’intrighi del parlatorio ebbero pietà di me, e mi posero al fatto di ciò che succedeva; ed ecco come. Le finestre della mia camera corrispondevano per l’appunto dirimpetto al campanile del convento. Vi si erano spartite nel fabbricarlo diverse vetrate cieche, a traverso le quali si vedeva confusamente la figura delle persone, che vi si accostavano. Avevo veduto più volte a queste aperture, che erano lunghi quadrati, delle figure e dei cenni, e potei comprendere col tempo, che questi segni indicavano le lettere dell’alfabeto, che si formavano delle parole, e che si poteva parlar da lontano: avevo quasi ogni giorno mezz’ora di questa muta conversazione, i cui discorsi per altro erano savi e decenti.
Col mezzo appunto di questo alfabeto manesco intesi, che la signorina N*** era per maritarsi speditamente col suo tutore. Sdegnato della maniera di procedere della dama B***, andai a trovarla il giorno dopo pranzo, risolutissimo di esternarle tutto il mio risentimento. Chiamata, ella viene, mi guarda fissamente, e accorgendosi che ho del rancore, avveduta com’era, non mi dà tempo di parlare, mi attacca la prima con vigore e con una specie d’impeto. — E bene, signore, mi disse, voi siete dolente, vi conosco al viso. — Volevo parlare, ella non mi ode, rinforza la voce, e continua: — Sì, signore, la signorina N*** si marita, ed è per sposarsi col suo tutore. Volevo alzar la voce anch’io: — Zitto, zitto ella grida, ascoltatemi; questo matrimonio è opera mia; dopo le mie riflessioni l’ho secondato, e per causa vostra ho cercato di sbrigarlo. — Per causa mia? io dissi. — Zitto, ella replica, conoscerete la condotta di una donna accorta, e che ha propensione per voi. Siete voi, proseguì ella, siete voi in stato di prender moglie? No, per cento ragioni. La signorina doveva ella aspettare il vostro comodo? No: ella non n’era padrona, bisognava maritarla: l’avrebbe potuta sposare un giovine, e voi l’avreste perduta per sempre. Si marita ad un vecchio, ad un uomo cagionevole, e che non può vivere per lungo tempo; e benchè io non conosca i piaceri ed i disgusti del matrimonio, pure so che una moglie giovine deve abbreviar la vita di un marito vecchio; e così voi possederete una bella vedova, che non avrà avuto di moglie, che il nome. State dunque quieto su questo punto, essa avrà avvantaggiati i suoi interessi, sarà molto più ricca che non è attualmente, frattanto voi farete il vostro viaggio. Nè abbiate timore alcuno riguardo a lei: no, mio caro amico, non temete; ella vivrà nel mondo col suo vecchione, ed io veglierò sempre sulla di lei condotta. Sì, sì, ella è vostra, ve ne sto garante, e vi dò la mia parola d’onore. — Ecco la signorina N*** che giunge, e si accosta alla grata. La direttrice mi dice in un’aria di mistero: congratulatevi con madamina sul di lei matrimonio. Non potei più reggere; fo la mia reverenza, e me ne vado senza dir altro. Non vidi più nè la direttrice, nè l’educanda, e grazie a Dio non tardai molto a scordarmi di tutte e due.