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capitolo xix 57


carica qualche tempo dopo, ed a Venezia, ove sua eccellenza era stato insignito del grado di senatore, mi hanno sempre onorato della loro protezione.

Tutti partirono: io restai a Chiozza, aspettando che il signor Zabottini (questo era il nome del cancelliere) mi chiamasse a Venezia per il viaggio di Feltre. Avevo sempre coltivata la conoscenza delle religiose di San Francesco, ove si trovavano bellissime educande, e la signora B*** ne aveva una sotto la sua direzione, bellissima, ricchissima ed amabile. Essa mi sarebbe moltissimo andata a genio, ma la mia età, il mio stato, la mia fortuna non potevano permettermi di accarezzare una tale idea. La religiosa per altro non mi toglieva di speranza, e quando andavo a trovarla, non mancava mai di fare scendere la signorina al parlatorio. Sentivo che mi ci sarei affezionato a buono, e la direttrice ne pareva contenta; pure io non sapeva persuadermene. Un giorno però le parlai della mia inclinazione e del mio timore; mi fece coraggio, e mi confidò il segreto. Quella signorina aveva del merito e dei beni; ma vi era dell’oscuro sopra la di lei nascita. Questo piccolo difetto è nulla, diceva la dama velata; la giovine è savia e bene educata, vi sto garante del suo carattere e della sua condotta. Ha un tutore, continuò a dire, e bisognerà guadagnarselo, ma lasciate fare a me. È vero che questo tutore, il quale è vecchissimo e rovinato nella salute, ha qualche pretensione sopra la pupilla, ma ha torto, e... siccome in questo ci ho interesse ancor io, lasciate fare a me, replicò di nuovo, disporrò le cose per il meglio. — Confesso, che dopo questo discorso, dopo questa confidenza, e questo incoraggiamento cominciai a credermi felice. La signorina N*** non mi vedeva di mal occhio, ed io riguardava la cosa per fatta. Tutto il convento si era accorto della mia inclinazione per l’educanda, e vi furono delle signorine, che conoscendo gl’intrighi del parlatorio ebbero pietà di me, e mi posero al fatto di ciò che succedeva; ed ecco come. Le finestre della mia camera corrispondevano per l’appunto dirimpetto al campanile del convento. Vi si erano spartite nel fabbricarlo diverse vetrate cieche, a traverso le quali si vedeva confusamente la figura delle persone, che vi si accostavano. Avevo veduto più volte a queste aperture, che erano lunghi quadrati, delle figure e dei cenni, e potei comprendere col tempo, che questi segni indicavano le lettere dell’alfabeto, che si formavano delle parole, e che si poteva parlar da lontano: avevo quasi ogni giorno mezz’ora di questa muta conversazione, i cui discorsi per altro erano savi e decenti.

Col mezzo appunto di questo alfabeto manesco intesi, che la signorina N*** era per maritarsi speditamente col suo tutore. Sdegnato della maniera di procedere della dama B***, andai a trovarla il giorno dopo pranzo, risolutissimo di esternarle tutto il mio risentimento. Chiamata, ella viene, mi guarda fissamente, e accorgendosi che ho del rancore, avveduta com’era, non mi dà tempo di parlare, mi attacca la prima con vigore e con una specie d’impeto. — E bene, signore, mi disse, voi siete dolente, vi conosco al viso. — Volevo parlare, ella non mi ode, rinforza la voce, e continua: — Sì, signore, la signorina N*** si marita, ed è per sposarsi col suo tutore. Volevo alzar la voce anch’io: — Zitto, zitto ella grida, ascoltatemi; questo matrimonio è opera mia; dopo le mie riflessioni l’ho secondato, e per causa vostra ho cercato di sbrigarlo. — Per causa mia? io dissi. — Zitto, ella replica, conoscerete la condotta di una donna accorta, e che ha propensione per voi. Siete voi, proseguì ella, siete voi in stato di prender moglie? No, per cento