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136 parte prima

CAPITOLO L.

Mia aggregazione agli Arcadi di Roma. — Mia commedia intitolata: Il figlio di Arlecchino perduto e ritrovato. — Causa importante trattata in Pisa. — Altra causa a Firenze. — Mio viaggio a Lucca. — Musica straordinaria. — Graziosa opera. — Delizioso viaggio.

Nel tempo che stavo scrivendo la mia commedia, facevo chiudere al farsi della notte la porta, nè andavo punto a passar le sere al caffè degli Arcadi. Me ne rimproverarono la prima volta che vi comparvi, e me ne scusai sotto pretesto di gravi affari del mio studio. Quei signori avean caro di vedermi occupato, ma non volevan dall’altro canto che io dimenticassi il delizioso divertimento della poesia. Arriva il signor Fabri, che mostra estremo piacere in vedermi; trae dalla sua tasca un grosso involto, e mi presenta due diplomi, fatti venire espressamente per me: uno, era la patente chi mi aggregava all’Arcadia di Roma sotto il nome di Polisseno; e l’altro, mi dava l’investitura delle campagne Tegee: tutti allora in coro mi salutarono sotto il nome di Polisseno Tegeo, e cordialmente mi abbracciarono come loro compastore e confratello. Come voi ben vedete, caro lettore, noi altri Arcadi siamo ricchi; possediamo terre in Grecia, le aspergiamo coi nostri sudori, per poi raccogliervi frasche d’alloro, mentre che i Turchi vi seminan grano, vi piantan viti, solennemente burlandosi delle nostre canzonette e dei nostri titoli. Malgrado le mie occupazioni, non lasciavo di comporre di tempo in tempo sonetti, odi, ed altre cose in poesia lirica per le sedute della nostra accademia. Ma i Pisani avevano un bell’esser contenti di me: tale non era io, poichè per dire il vero, non sono mai stato buon poeta; così potevo forse chiamarmi per l’invenzione, ed il teatro ne potrebbe essere una prova, e verso questa parte appunto si rivolse il mio genio. Poco tempo dopo, il Sacchi mi diede notizia del buon successo della mia commedia. Il servo di due padroni riscuoteva molti applausi, se ne facevano tante ricerche che non si poteva desiderar nulla di più, e mi mandò nel tempo istesso un regalo che mai mi sarei aspettato, ma mi richiese un’altra commedia, e mi lasciò padrone della scelta del soggetto. Bramava bensì che la mia ultima composizione fondata unicamente sul rigiro comico, avesse avuto per base una favola piacevole, suscettibile di tutti quei sentimenti patetici che si convengono ad una commedia. Conoscevo benissimo che parlava da uomo, ed avevo un gran desiderio di contentarlo. La sua maniera di procedere m’impegnava anche di più. Ma il mio studio... Ecco alla tortura il mio cervello. Quando scrissi l’ultima commedia, avevo detto. — Ancora per questa volta. — Ci erano pertanto tre soli giorni di tempo per rispondere, e in questi tre giorni, e camminando e desinando e dormendo, non sognavo che il Sacchi, nè avevo per il capo che lui; bisogna pure levarmi di testa questo soggetto per esser buono a qualche altra cosa.

Immaginai pertanto quella commedia, conosciuta in Francia in egual modo che in Italia, sotto il titolo del Figlio d’Arlecchino perduto e ritrovato. Non si può concepire l’ottimo successo che ebbe questa piccola bagatella: fu appunto quella che mi fece venir a Parigi; composizione veramente per me avventurosa, ma che però