Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/II

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte prima - I Parte prima - III
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CAPITOLO II.

Mio primo viaggio. — Miei studi di Umanità.

Mio padre, che non doveva restare a Roma se non per qualche mese, vi si trattenne quattro anni. In questa gran capitale del mondo cristiano aveva un amico intimo, il signor Alessandro Bonicelli veneziano, che aveva recentemente sposato una romana ricchissima, e che godeva di un brillantissimo stato. Il signor Bonicelli ricevè affettuosamente il suo amico Goldoni: lo alloggiò in sua casa, lo presentò in tutte le sue conversazioni e a tutte le sue conoscenze, e lo raccomandò vivamente al signor Lancisi, primo medico e cameriere segreto di Clemente XI. Questo celebre dottore, che arricchì la repubblica letteraria e la facoltà medica di eccellenti opere, strinse singolare amicizia con mio padre, che aveva ingegno e cercava occupazione. Lancisi lo consigliò a darsi alla medicina; gli promise favore, assistenza, protezione. Mio padre vi acconsentì; fece i suoi studi nel collegio della Sapienza, e la sua pratica nello spedale di Santo Spirito. Al termine di quattro anni fu laureato dottore, ed il suo mecenate lo mandò a cominciare l’esercizio della sua professione a Perugia. Le prime mosse di mio padre furono felicissime. Aveva la scaltrezza di non s’impegnare nelle malattie che non conosceva; guariva i suoi malati, ed era molto in moda in quel paese il medico veneziano.

Mio padre, ch’era forse buon medico, era ancora graziosissimo in conversazione. Riuniva alla naturale giocondità del suo paese l’uso della buona compagnia, ov’egli era vissuto. Si guadagnò la stima e l’amicizia dei Buglioni e degli Antinori, due delle più nobili e ricche famiglie della città di Perugia.

In questo paese appunto, e in tal felice condizione ricevè il primo saggio delle buone disposizioni del figlio suo maggiore. Quella commedia, comunque informe ella fosse, lo lusingò infinitamente; poichè calcolando con i principii dell’aritmetica, dicea fra sè: se nove anni danno quattro carati di spirito, diciotto possono darne [p. 14 modifica]dodici, e per progressione successiva si può giungere fino al grado della perfezione.

Il mio genitore si determinò a volermi presso di sè; e questo fu un colpo di pugnale al cuore di mia madre. Ella vi resistè in principio, esitò in seguito, e terminò con acconsentirvi. Si presentò un’occasione la più favorevole del mondo. La nostra casa era in buonissima lega con quella del conte Rinalducci di Rimini, il quale con la moglie e con la figlia si trovava allora a Venezia. Il Padre abate Rinalducci, Benedettino e fratello del conte, doveva andare a Roma; prese l’impegno di passare per Perugia, e di condurmivi. Si fanno i fagotti, giunge il momento, bisogna partire. Non vi parlerò delle lacrime della mia tenera madre; chiunque abbia figli conosce momenti sì crudeli; io pure sentiva il più forte affetto per chi mi aveva portato nel seno, e mi aveva allevato ed accarezzato; ma l’idea di un viaggio è per un giovane una distrazione seducente.

Imbarcammo, il Padre Rinalducci ed io, al porto di Venezia in una specie di filuga denominata Peota Zuecchina, e veleggiammo per Rimini. Il mare non mi fece alcun male, anzi avevo un ottimo appetito. Sbarcammo all’imboccatura della Marecchia, ov’erano alcuni cavalli ad aspettarci. Mi vidi nel più grande imbroglio, quando mi si propose di salire a cavallo. Per le strade di Venezia non si vedono cavalli; vi sono due scuole di cavallerizza, ma ero troppo giovane per profittarne. Aveva visto nella mia fanciullezza i cavalli alla campagna, li temevo e non ardivo accostarmi. Le strade dell’Umbria, che dovevamo traversare essendo montuose, il cavallo era la vettura più comoda per i viandanti; bisognava adattarvisi. Mi si prende a traverso il corpo, e mi si getta sulla sella. Misericordia! stivali, sproni, briglie, frusta! Che fare di tutto ciò? Sbalzavo come un sacco: il reverendo padre rideva di tutto cuore, i servitori si burlavano di me, ed io pure ne rideva. A poco a poco mi addomesticai col mio puledretto, lo regalavo di pane e di frutte; divenne mio amico, ed in sei giorni di tempo arrivammo a Perugia.

Mio padre fu contento in vedermi, e molto più per vedermi in buon essere; gli dissi con un’aria d’importanza, che avevo fatto il mio viaggio a cavallo. M’applaudì sorridendo, e mi abbracciò teneramente. Trovai la nostra abitazione molto melanconica, e in una strada disagiosa e bruttissima. Pregai mio padre di sloggiare dalla medesima, ma non poteva: la casa era congiunta al palazzo Antinori, non pagava pigione, ed era vicinissimo alle monache di Santa Caterina, delle quali era medico.

Vidi la città di Perugia; fui condotto da mio padre stesso per tutto. Cominciò dalla suntuosa chiesa di San Lorenzo, ch’è la cattedrale del paese, ove si conserva e si espone l’anello con cui San Giuseppe sposò Maria Vergine. È una pietra di una trasparenza turchinetta, e d’un contorno molto cupo; tale a me parve: si dice però che questo anello cangi miracolosamente colore e forma ai vari occhi che vi si appressano. Mio padre mi fece osservar la fortezza, che Paolo III fece fabbricare al tempo che Perugia godeva di libertà repubblicana, sotto pretesto di regalare ai Perugini uno spedale per i malati ed i pellegrini. Vi fece introdurre dei cannoni dentro carri carichi di paglia; indi si gridò: Chi viva? Bisognò necessariamente rispondere: Paolo III. Osservai bellissimi palazzi, belle chiese, amene passeggiate; domandai se vi era sala da spettacolo, mi fu risposto di no; tanto peggio, io soggiunsi, non ci resterei per tutto l’oro del mondo. In capo a qualche giorno mio padre si determinò di farmi continuare gli studi; era giusto ed era [p. 15 modifica]io pure di tal volere: essendo in voga i Gesuiti, mi propose ai medesimi, e vi fui ricevuto senza difficoltà. Le classi di belle lettere in Italia, non sono distribuite come in Francia. Non ve ne sono che tre: grammatica inferiore, grammatica superiore, altrimenti detta umanità, e rettorica. Quelli che profittano, ed impiegano bene il tempo, possono terminare il loro corso nello spazio di tre anni.

A Venezia avevo fatto il mio primo anno di grammatica inferiore, e avrei perciò potuto entrare nella superiore; ma il tempo ch’avevo perduto, la distrazione del viaggio, i nuovi maestri ch’ero per avere, tutto persuase mio padre a farmi ricominciare, e fece benissimo; poichè voi vedrete, mio caro lettore, come questo grammatico veneziano, il quale non mancava di vantarsi di aver composto un’opera, si trovò rimpicciolito in un istante.

L’anno letterario era inoltrato, e fui ricevuto nella classe inferiore come uno scolare già formato ed istruito per la superiore. Mi fecero alcune interrogazioni, risposi male; mi fecero spiegare, io balbettava; mi si fece fare il latino, un mare di solecismi e modi barbari. Fui deriso, ed ero divenuto lo scherno de’ miei compagni: si divertivano essi a sfidarmi, tutte le mie battaglie erano perdite; mio padre era in disperazione; ed io era mortificato, sbalordito, e mi credei ammaliato.

Si avvicinava il tempo delle vacanze; si doveva fare l’esperimento della propria capacità, il che si chiama in Italia Latino del passaggio, poichè questo piccolo lavoro deve decidere del merito degli scolari per farli salire ad un’altra classe, o per farli rimanere nella medesima. Tale era al più la sorte che io doveva augurarmi.

Arriva il dato giorno; il reggente detta, gli scolari scrivono, ognuno fa meglio che può. Riunisco tutte le mie forze; mi rappresento al pensiero il mio onore, la mia ambizione, il mio genitore, mia madre. Vedo che i miei vicini mi guardano con la coda dell’occhio e ridono: facit indignatio versum. La rabbia e la vergogna mi accendono: leggo il mio tema, sento fresca la mia testa, leggiera la mano, feconda la memoria: termino prima degli altri, sigillo il mio foglio, lo porto al reggente, e parto contento di me.

Otto giorni dopo si chiama e si aduna la scolaresca; si pubblica la decisione del collegio. Prima nomina: Goldoni nella classe superiore. Ecco un frastuono universale nella medesima, e si tengono degli indecenti discorsi. Si legge ad alta voce la mia traduzione; neppure uno sbaglio di ortografia: mi chiama il reggente alla cattedra, e mentre mi alzo per andarvi, vedo mio padre alla porta, e corro ad abbracciarlo.