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capitolo ii 13

opera mia; sosteneva che il mio maestro l’aveva rivista e corretta. Questi trovò ingiurioso il giudizio: la disputa prendeva fuoco; sopraggiunse fortunatamente un terzo soggetto in quell’istante, e li calmò. Era questi il signor Vallè, poi abate Vallè di Bergamo. Questo amico di casa mi aveva visto lavorare intorno a quella composizione, ed era stato testimone delle mie fanciullesche fole ed arguzie. Lo avevo pregato di non parlarne ad alcuno; egli aveva serbato il segreto, e in questa occasione facendo tacere l’incredulo, rese giustizia alle mie buone disposizioni. Nel primo volume della mia edizione del Pasquali, avevo citato per prova di questa verità l’abate Vallè, che nel 1770 ancora viveva, dubitando io fortemente, che vi fossero altri compari, che non mi prestasser fede. Se il lettore mi domandasse qual era il titolo della mia composizione, non sarei in grado di soddisfarlo, poichè questa fu una bagattella, cui niente riflettei nell’eseguirla. Non istarebbe che a me rassegnarglielo presentemente, ma mi compiaccio dir le cose come sono, piuttosto che abbellirle. In somma quella commedia o, per meglio dire, quella puerile follìa, corse per tutte le conversazioni di mia madre, e ne fu spedita una copia al mio genitore. Eccoci al momento di ritornare a lui.

CAPITOLO II.

Mio primo viaggio. — Miei studi di Umanità.

Mio padre, che non doveva restare a Roma se non per qualche mese, vi si trattenne quattro anni. In questa gran capitale del mondo cristiano aveva un amico intimo, il signor Alessandro Bonicelli veneziano, che aveva recentemente sposato una romana ricchissima, e che godeva di un brillantissimo stato. Il signor Bonicelli ricevè affettuosamente il suo amico Goldoni: lo alloggiò in sua casa, lo presentò in tutte le sue conversazioni e a tutte le sue conoscenze, e lo raccomandò vivamente al signor Lancisi, primo medico e cameriere segreto di Clemente XI. Questo celebre dottore, che arricchì la repubblica letteraria e la facoltà medica di eccellenti opere, strinse singolare amicizia con mio padre, che aveva ingegno e cercava occupazione. Lancisi lo consigliò a darsi alla medicina; gli promise favore, assistenza, protezione. Mio padre vi acconsentì; fece i suoi studi nel collegio della Sapienza, e la sua pratica nello spedale di Santo Spirito. Al termine di quattro anni fu laureato dottore, ed il suo mecenate lo mandò a cominciare l’esercizio della sua professione a Perugia. Le prime mosse di mio padre furono felicissime. Aveva la scaltrezza di non s’impegnare nelle malattie che non conosceva; guariva i suoi malati, ed era molto in moda in quel paese il medico veneziano.

Mio padre, ch’era forse buon medico, era ancora graziosissimo in conversazione. Riuniva alla naturale giocondità del suo paese l’uso della buona compagnia, ov’egli era vissuto. Si guadagnò la stima e l’amicizia dei Buglioni e degli Antinori, due delle più nobili e ricche famiglie della città di Perugia.

In questo paese appunto, e in tal felice condizione ricevè il primo saggio delle buone disposizioni del figlio suo maggiore. Quella commedia, comunque informe ella fosse, lo lusingò infinitamente; poichè calcolando con i principii dell’aritmetica, dicea fra sè: se nove anni danno quattro carati di spirito, diciotto possono darne