Memorie (Bentivoglio)/Libro primo/Capitolo II
Questo testo è completo. |
◄ | Libro primo - Capitolo I | Libro primo - Capitolo III | ► |
Capitolo II.
Come io andassi a Ferrara per occasione d’esser quella cittá devoluta alla sede apostolica, e ciò che seguisse poi in quella, e in altre materie.
Era morto in quei giorni, e fu nel mese di ottobre 1597, Alfonso duca di Ferrara, senza che di tre mogli avesse lasciata prole d’alcuna sorte. Il piú prossimo dopo Alfonso per succedere a quel feudo della sede apostolica era Cesare suo primo cugino, e benché in Roma si avesse per cosa chiara ch’egli venisse da linea difettosa, nondimeno si pretendeva da lui che fussero bastantemente sanati in essa i difetti, e ch’egli perciò non potesse rimanere escluso da quel feudo che i prencipi Estensi con varie favorevoli investiture di sommi pontefici avevano sí largamente goduto. Ma dall’altra parte Clemente ottavo constituito allora nel grado pontificale, stando fermo nelli accennati sensi del tutto contrari, sosteneva che restassero nella linea di Cesare tali difetti e cosí notori che lo rendessero chiaramente incapace di godere quella successione. Fra queste difficoltá Cesare non trovando aperta in Roma alcuna strada al negozio, dava segno di voler mantenersi nel preteso dominio con l’armi, e fattone qualche apparecchio, ne provedeva la terra di Lugo e l’altre di quella frontiera, chiamata la Romagnola, contro la quale stimava che il pontefice fusse per voltare principalmente le sue armi. Al medesimo tempo aveva egli spediti vari ambasciatori alle prime corti della cristianitá, e specialmente a’ prencipi d’Italia, procurando per tutto di giustificare la sua causa e di conseguirne favore eziandio per difenderla.
Appresso il duca Alfonso commandava nel primo luogo alle sue milizie il marchese Ippolito mio fratello maggiore, il quale dopo essersi trovato in Ispagna alla mossa d’armi, che sotto un capitano sí famoso come fu il duca d’Alba aveva fatto il re Filippo secondo, per la devoluzione del Portogallo, s’era trasferito poi a travagliare in Fiandra sotto un altro guerriero pur sí famoso come fu il duca di Parma. Quivi le prime sue militari fatiche si erano impiegate da lui nel memorabile assedio d’Anversa, dopo il quale avendolo il duca di Parma onorato d’una compagnia di lancie e di mano in mano d’altri molto onorevoli impieghi, e il re di un luogo nel consiglio di guerra, spesi alcuni anni in quelle provincie, egli era poi tornato con riputazione molto grande in Ferrara. Morto Alfonso aveva Cesare continuato a servirsi di lui nel medesimo impiego, e l’aveva spedito con l’accennate forze a munir Lugo e il resto di quel confine.
Invitato il pontefice da queste azioni di Cesare, dopo d’aver usato ma indarno le solite ammonizioni, era disceso finalmente al rimedio consueto delle censure, e all’armi spirituali accompagnando le temporali, aveva con incredibile celeritá formato un esercito poderoso per dar con queste il dovuto vigore a quelle. Né da lui si era tralasciato al medesimo tempo d’inviare nunzi straordinari dove egli aveva giudicato esserne piú di bisogno, e specialmente alla corte di Spagna, per la gran parte che avea quel re nelle cose d’Italia, procurando ivi e con tutti gli altri prencipi obbedienti alla Chiesa d’imprimere in loro quei sensi che piú convenivano, e di riverenza verso la sede apostolica e di favore verso questa nuova causa ch’egli con tanta risoluzione aveva preso a difendere. In questa maniera facendo con somma vigilanza e prudenza servire il negozio all’armi, e l’armi al negozio, andava disponendo le cose da tutte le bande per conseguire in tutto quei maggiori vantaggi che in tale occasione da lui si desideravano. Intanto egli aveva fatto muovere da Roma il cardinale Pietro Aldobrandino suo nipote per via di fratello, dopo averlo dichiarato con amplissima autoritá legato dell’esercito, e insieme datagli tutta quella che poteva essere piú necessaria per sí grave e sí importante maneggio. Componevasi l’esercito di venti mila fanti e tre mila cavalli; e di giá i gradi piú qualificati si erano distribuiti in varie persone delle piú principali per nobiltá di sangue, e delle piú stimate per esperienza di guerra che avesse lo stato ecclesiastico. Era mastro di campo generale Pietro Caetano duca di Sermoneta; generale della fanteria Marzio Colonna duca di Zagarolo; generale dell’artigliaria Mario Farnese duca di Latere, e la cavalleria stava separatamente sotto due capi, che erano Lotario Conti duca di Poli, e il marchese della Cornia, il primo de’ quali comandava alle lande e il secondo agli archibugieri. Da Roma si era trasferito il cardinale in Ancona, e quivi trattenutosi alcuni giorni era passato di lá in Romagna dove si destinava la piazza d’arme all’esercito. E perciò fermatosi poi egli in Faenza, andava ivi raccogliendo la gente che da tutte le parti dello stato ecclesiastico si moveva. Stavasi giá nel principio del verno, che si fece sentire asprissimamente quell’anno, e con tutto ciò non si tralasciando né dal pontefice né dal legato alcuna piú fervida diligenza, parea che gareggiando insieme facessero stare in dubio se dimostrassero da una parte il pontefice maturitá o virtú maggior di consiglio, o dall’altra il legato maggior vigilanza e premura d’esecuzione.
Da sí grande e risoluto apparecchio d’armi spaventato Cesare, e mancandogli ogni giorno piú la speranza di potere con forze vigorose d’altri maggiori prencipi sostenere le sue troppo deboli, in se medesimo stimò che non convenisse irritar maggiormente il pontefice, ma che fusse meglio di cercar le vie d’addolcirlo, e con ogni possibile vantaggio venir seco poi quanto prima a composizione. Trattenevasi in Ferrara Lucrezia d’Este duchessa d’Urbino sorella d’Alfonso, venuta a dimorarvi molti anni avanti per disgusti che l’avevano fatta separare dal marito. Giudicò dunque Cesare che ella sarebbe stata molto al proposito per intraporsi col legato e far seco offici necessari per la concordia. Né fu ricusato dalla duchessa l’impiego, anzi mostrandosi pronta nell’accettarlo e piú ancora nell’eseguirlo si trasferí personalmente a Faenza, ancorché ella fusse di etá molto grave di sanitá molto imperfetta, e la stagione allora nel piú alto e crudo rigore del verno. Tale era lo stato delle cose narrate di sopra quando io partii da Padova e venni a Ferrara.
Contra il marchese mio fratello erasi risentito gravemente il legato per averlo veduto venire con l’accennate forze alla difesa di Lugo e di quel confine; onde per giustificare lui da una parte e fare io dall’altra quella dimostrazione d’ossequio appresso il legato, che si doveva, risolvei d’andar subito a trovarlo a Faenza. Era in mano del cardinale Bandino la legazione di Romagna in quel tempo, ed avendo egli alcuni anni prima esercitata la vicelegazione di Bologna, era per le sue mani principalmente seguito il matrimonio allora tra il marchese Cesare Pepoli e Giulia figliuola del marchese Ippolito mio fratello. Mostrava egli perciò un particolare affetto verso la casa mia onde a lui che pur stava in Faenza io mi indrizzai affinché si compiacesse d’introdurmi a riverire il cardinale Aldobrandino, appresso il quale vedevasi ch’egli, e per essere stato promosso dal pontefice Clemente al cardinalato e per la considerazione del suo merito proprio, era in gran confidenza e stima. Da Bandini fui ricevuto con somma benignitá. Rappresentommi l’alterazione che aveva mostrata contra mio fratello il cardinale Aldobrandino, e giudicò bene che io differissi a vederlo sin’all’esito della concordia, che stava per seguire di giorno in giorno. Intanto appresso di lui medesimo io procurai di giustificare il marchese mio fratello. Dissi che la sua professione era di soldato e non di teologo, e d’intendere i termini piú di cavaliere che di ecclesiastico, avendo imparato fra le corti e fra l’armi quei mestieri, e non questi; che del resto niuno piú di lui insieme con tutta la casa nostra avrebbe mostrato il dovuto ossequio verso il legato e la dovuta obbedienza verso la santa sede; e che dell’una e dell’altra cosa io fin d’allora avrei servito per pegno; e che nell’avvenire della casa tutta se ne farebbe apparire ogni altra piú viva testimonianza. Da Bandini mi fu risposto ch’egli aveva quasi fatte le medesime considerazioni a favore di mio fratello e di tutta la casa nostra, e suggeritele ancora piú volte al cardinale Aldobrandino; che la concordia seguirebbe senz’altro ben tosto, e che fermamente il cardinale Aldobrandino mi avrebbe con ogni onore e benignitá ricevuto e trattato; e quasi subito appunto fu concluso l’accordo che si maneggiava dalla duchessa di Urbino, onde subito ancora fui a riverire il cardinale Aldobrandino, che mi accolse molto benignamente e ricevé molto bene eziandio l’accennata giustificazione a favore di mio fratello. Mostrò gusto che io mi fussi applicato alla professione ecclesiastica, e mi offerse il suo patrocinio e favore quando avessi fornito a Padova i miei studi e fussi andato alla corte di Roma. Stabilito l’accordo se ne tornò incontinente la duchessa d’Urbino, e al medesimo tempo venne a Faenza il principe Alfonso primogenito del duca Cesare inviatovi per ostaggio finché dal padre si mettesse l’accordo in esecuzione. Il che poco dopo seguí ritirandosi il duca a Modena, e rendendosi la cittá di Ferrara col suo ducato alla Chiesa.
Dal pontefice fu data subito al nipote la nuova legazione di Ferrara, onde egli si preparò a venire a pigliare il possesso e di questo carico per la sua propria persona, e d’un tanto e sí glorioso acquisto per quella del zio e per la sede apostolica.
Giunse a Ferrara negli ultimi giorni di febraro 1598 e vi fece una splendidissima entrata, regolandola con tutto quello accompagnamento e di mistura di pompa ecclesiastica e militare, che poteva piú desiderarsi in tale occasione. Veniva il cardinale sotto il baldacchino a cavallo col clero in gran numero, coi capi dell’esercito poco inanzi alla sua persona, e inanzi a loro tutta la nobiltá di Ferrara e molt’altra de’ vicini paesi, e prima di questa gente cavalleresca e civile vedevasi pur un gran numero di gente armata a cavallo e a piedi; e affinché piú splendidamente comparisse l’entrata, l’accompagnarono le continue e strepitose salve d’archibugi e d’artigliaria; e condottosi a drittura il legato alla chiesa catedrale dopo aver riferite a Dio le grazie dovute, si ridusse poi all’abitazione del castello che è in mezzo della cittá, e dove con gran magnificenza e commoditá i duchi erano soliti abitare e dimorare. Fermatosi il nuovo legato in Ferrara, attese egli con molta diligenza a stabilire il governo della cittá. Lasciò in piedi il magistrato principale come era prima; scelse venti famiglie delle piú nobili per gli offici della cittá piú qualificati, e formò un altro piú inferiore corpo di cittadinanza ma piú numeroso, che unitamente con l’ordine superiore avesse parte in alcune elezioni piú gravi e piú generali. Intanto la stagione si era molto addolcita, onde il legato fatta scelta d’alcuni pochi ferraresi delle prime famiglie (e si compiacque d’onorarmi fra quelli) per essere accompagnato da loro, prese risoluzione d’andare a Comacchio per dare una vista a quella cittá e a quel paese lá intorno. Partí da Ferrara nel mese di marzo, e imbarcatosi nel Po fece gli ultimi giorni della settimana santa alla Mesola, luogo nel quale il duca Alfonso godeva in particolare il suo maggior trattenimento di verno alle caccie grosse di cinghiali e di cervi; e di lá passò il cardinale a Comacchio picciola cittá, che rappresenta un’adombrata e rozza imagine di Venezia, essendo compartita anch’essa fra molti canali e arricchita di nuovo di molti ponti, e popolata pur similmente da buon numero di barchette a guisa di rozze gondole. Ha dell’unico specialmente ancor essa in una sua particolare qualitá. Stagna longhissimamente il mare lá intorno fra terra, e di mare si converte in piú valli, e in queste contrastando l’arte con la natura o piú presto favorendosi l’un l’altra scambievolmente, si veggono poi nascere quelle sí copiose e sí mirabili pescagioni che rendono per tutto sí celebre il nome dei comacchiesi.
Trattenutosi quattro giorni il cardinale in Comacchio, tornò a Ferrara, e dopo alcuni pochi altri determinò d’andare a vedere con gli occhi propri la vera e sí celebrata e sí maestosa Venezia, ch’egli aveva prima veduta solamente con le relazioni degli altri. Andovvi da sconosciuto con poche persone, e in questa forma dimorò intorno a dieci giorni in casa del nunzio apostolico; ma benché egli avesse voluto in ogni maniera sottrarsi al publico trattamento, e a quegli onori che alla sua persona con ogni maggior larghezza sarebbono stati resi dalla republica, nondimeno ella non ne tralasciò alcuno di quelli che in tal forma incognita del cardinale averebbono potuto essere piú proporzionati a chi da una banda gli compartiva e a chi dall’altra gli riceveva; né potevano essere piú ben disposte vicendevolmente le volontá, perché fra il pontefice e la republica era passata sempre un’ottima corrispondenza, e due anni prima in una promozione di sedeci cardinali il pontefice aveva portato a quel grado tre soggetti veneti, cioè Priuli patriarca di Venezia, Cornaro vescovo di Trevigi e Mantica, per nominazione della republica auditore della rota romana. Tornò da Venezia il cardinale con le meraviglie che d’ordinario cagiona in tutti quella cittá, e meritamente in vero: potendosi dubitare con tutta ragione se in quel superbo teatro di mare e di terra onde vien formata si maestosa cittá di republica, piú deva magnificarsi o la prerogativa del sito o l’antichitá dell’origine o l’ornamento degli edifici o l’eccellenza del governo o la reputazione delle forze o pur sopra ogn’altra cosa l’esser quella cittá, sin da’ suoi primi giorni continuati dopo una cosí longa serie di secoli, nata e cresciuta, e sempre con sí memorabili azioni per terra e per mare, nel vero culto della sola antica religione e pietá cattolica.
In questo mezzo era morta la duchessa d’Urbino e aveva lasciato suo erede il cardinale, che subito accompagnò la sua morte con una solenne pompa d’esequie; né si tardò poi molto a sapere che il pontefice aveva risoluto di venire a Ferrara e di passarvi l’estate, per godere con la sua propria presenza il suo nuovo acquisto. E veramente non si può dire con quanta gloria l’aveva fatto, e quanta ne aggiongeva all’altra poco inanzi da lui conseguita nell’aver saputo con sí gran zelo e prudenza far succedere la riunione del re di Francia con la sede apostolica, e di aver poi con l’autoritá e destrezza de’ suoi offici pur anche riunite in buona pace e concordia strettamente le due corone.