Melmoth o l'uomo errante/Volume II/Capitolo XIV

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Charles Robert Maturin - Melmoth o l'uomo errante (1820)
Traduzione dall'inglese di Anonimo (1842)
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CAPITOLO XIV.


La giornata seguente fu tutta intiera passata per parte di donna Chiara, alla quale occorreva molto di rado di scrivere, fu passata, dico, a rileggere e correggere la risposta, che ella aveva fatta alla lettera del suo marito. Dopo averla bene esaminata trovò in essa tante cose da permutare, da interlineare, da modificare e da cancellare, che finalmente codesta risposta assomigliava molto al ricamo su cui lavorava, e [p. 312 modifica]che era stato incominciato dalla sua avola. In codesta lettera donna Chiara rendeva conto al suo sposo di tuttociò, che aveva relazione alla loro figlia, e dopo aver fatto elogii dello spirito, de’ talenti, e delle grazie personali di lei, dessa esprimeva un vivo timore sulla di lei ragione. La povera donna riguardava come un contrassegno di alienazione di mente la maraviglia e lo stupore, che gli usi e le costumanze europee cagionavano nello spirito della sua figlia. Dopo aver citati molti tratti in appoggio della sua opinione, terminò la sua lettera con le frasi di uso, la piegò, la sigillò e la spedì alla città, che le era stata da don Francesco indicata.

Le abitudini e le costumanze di don Francesco erano, come quelle della massima parte de’ suoi compatriotti, tutte lente e quasi misurate col compasso; la sua ripugnanza a scriver altre lettere, fuori di quelle, che avevano rapporto col suo commercio, era tanto cognita, che donna Chiara fu seriamente allarmata nel [p. 313 modifica]ricevere la medesima sera, in cui aveva spedita la sua risposta, una seconda lettera del suo marito. Si giudicherà senza pena quanto singolare dovesse esserne il contenuto quando saprassi, che donna Chiara e il padre Giuseppe passarono tutta la notte in consultazioni piene d’inquietudini e di terrore. Rilessero più volte quella lettera straordinaria, ed a ciascheduna lettura i loro pensieri divenivano più malinconici, i loro consigli più imbarazzanti, i loro sguardi più tristi. Essi non cessavano di rimirarsi l’un l’altro; poscia alzandosi ad un tratto spaventati, ora con parole ora con un muto linguaggio uno dimandava all’altra, se non avesse sentito un insolito rumore nella casa. La lettera tutta intiera sarebbe poco interessante pe’ nostri lettori, e basterà di estrarne il passo seguente:

«Nel mio viaggio dal luogo ove sbarcai a questo, dal quale vi scrivo, mi ritrovo casualmente in una società di persone a me incognite, dalle quali intesi cose, che mi appartenevano direttamente, e ciò sul punto [p. 314 modifica]più delicato, che possa ferire il cuore di un padre cristiano. Coteste cose, che i forestieri dicevano tra loro senza sapere tutta l’importanza, che potevano avere per me, formeranno il soggetto di una delle nostre prime conversazioni al mio ritorno; elleno sono di una natura tanto spaventevole, che noi avremo forse bisogno dei consigli di un dotto ecclesiastico per ben comprenderle e sentirle. Checchè ne sia, dopo avere ascoltato codesto straordinario colloquio, del quale non oso comunicarvi in iscritto le minute particolarità, mi ritirai nella mia camera sopraffatto da’ più tetri pensieri, ed essendomi posto a sedere, presi un libro per discacciarli, se fosse possibile, prima di coricarmi; ma non trovai alcun ristoro nella lettura. Non tardai ad accorgermi, che in tal momento io non ci era punto disposto, quantunque oppresso dal sonno aveva ancora meno volontà di pormi a letto. Aprii dunque la cassetta da viaggio, ove io teneva rinchiuse lo vostre lettere, e ne estrassi quella, che mi scriveste per [p. 315 modifica]annunziarmi l’arrivo della nostra figlia, e nella quale mi facevate la descrizione della sua persona. Io aveva già tante volte letta e riletta questa descrizione, che, e vi prego a prestarmi intiera fede, il più abile dipintore non riuscirebbe a dipingerla meglio di quel che io far potrei colla immaginazione. La rilessi ciò non ostante per la centesima volta, ed andava meco stesso fantasticando che non tarderei molto a stringermi fra le braccia questa cara figlia. In questa piacevole occupazione i miei occhi si chiusero, e mi addormentai sulla poltrona. Nel sonno mi parve di vedere una creatura angelica, tale quale mi figurava la nostra figlia, assisa vicina a me, e che mi dimandava la paterna benedizione. Nel mentre che io mi abbassava per dargliela feci un moto della persona e mi risvegliai. Mi risvegliai dico, perchè quello che vidi in appresso era palpabile quanto i mobili della camera, nella quale io mi trovava. Dirimpetto a me era seduta una donna vestita alla spagnuola e ricoperta di un [p. 316 modifica]velo, che discendevale fino a’ piedi; essa pareva aspettare, che io le dirigessi la parola. Avvicinatevi, le dissi io, che cercate, e perchè siete qui? L’incognita nè sollevò il velo, nè fece alcun movimento colle labbra o colle mani. La mia mente era ripiena di ciò, che io aveva sentito dire, e dopo essermi segnato col segno augusto della nostra Redenzione me le avvicinai pronunziando dentro di me alcuna preghiera, e le dissi: giovane dama, che desiderate? — Un padre, ella mi rispose togliendosi il velo, e mostrando agli stupefatti occhi miei i lineamenti della nostra figlia Isidora, assolutamente tali, quali me li descriveste nell’ultima vostra lettera. Potete agevolmente farvi una idea della mia costernazione, e quasi direi del mio spavento alla vista di questa bella, ma strana e terribile apparizione. Il mio imbarazzo e turbamento aumentò invece di diminuire quando la figura, che mi era apparsa alzandosi ed accennandomi col dito la porta, quivi si diresse con prontezza e con una certa grazia [p. 317 modifica]misteriosa; uscendo ella della camera, pronunziò le seguenti parole: salvatemi! padre mio, salvatemi! Non indugiate un momento o io sono perduta! Fino a tanto che essa era stata nell’appartamento, io non aveva udito nè il rumore delle sue vesti nè il calpestio de’ suoi passi; solamente quando ella sortì distinsi come un soffio di vento, che traversava la camera. Una specie di nebbia oscurava tutti gli oggetti, questa si dissipò a poco a poco, ed io mandai un profondo sospiro, come se un peso enorme mi fosse stato tolto dal cuore. Passai più d’un’ora a quello, che mi era accaduto, e senza sapere se fosse stata una realità od una visione. Io sono un uomo mortale, e per conseguenza sensibile al timore e soggetto ad errare; ma sono altresì un cristiano, e come tale disprezzo i racconti degli spettri e delle apparizioni, de’ quali ci riempiono il capo nella nostra infanzia. Le mie considerazioni non conducendomi a veruna spiegazione ragionevole, mi gettai sul letto, ove restai lungo tempo senza poter [p. 318 modifica]prender sonno, e non fu, che verso la mattina, che alla fine mi addormentai profondamente; ma ad un tratto fui risvegliato da un rumore simile a quello del vento, che agitava le cortine del letto nel quale io riposava. Mi alzai a sedere ed aprendo diedi una occhiata all’intorno. Il giorno cominciava a spuntare, ma la luce non sarebbe stata sufficiente a farmi distinguere gli oggetti senza la lampana che ardeva nella mia camera, e la cui luce, quantunque debole, era non ostante molto chiara. Per mezzo di essa scoprii vicino alla porta una figura, nella quale, il mio occhio renduto più penetrante del timore, riconobbi la stessa donna, la quale mi si era già offerta poche ore prima, e che facendo colla mano un gesto malinconico e disperato, con un triste accento pronunziò queste brevi parole: Egli è troppo tardi! ed incontanente disparve. Ricolmo d’orrore a questa seconda divisione, ricaddi sull’origliere quasi senza conoscenza e nell’istante medesimo sentii l’orologio batter le quattr’ore. [p. 319 modifica]

Sul punto medesimo in cui donna Chiara e il padre Giuseppe terminavano di rileggere per la decima volta la lettera di don Francesco, l’orologio suonò effettivamente le ore quattro. Ecco una coincidenza singolare, disse l’ecclesiastico. — Non ci riscontrate altro che questo? gli rispose donna Chiara. — Non saprei; ho sovente inteso parlare degli avvertimenti, che ne danno i nostri angioli custodi, anco servendosi del ministero degli oggetti inanimati. — Ma a che serve avvertirci, quando... — Zitto! state in ascolto; non vi pare di sentire del rumore?... — No, rispose il padre Giuseppe ponendosi in ascolto con qualche emozione; no... aggiunse dopo un poco di silenzio, e con una voce più tranquilla e più rassicurata; il rumore, che effettivamente ho inteso è stato circa due ore fa; ha durato poco tempo, e d’allora in poi non ho sentito più nulla. — Quanto è languida la luce di queste candele, replicò donna Chiara guardandole con terrore. — Le imposte delle [p. 320 modifica]finestre sono aperte. — Lo sono sempre state, aggiunse donna Chiara: ma, giusto cielo! non sentite voi questo vento, che ad un tratto ha fatto vacillare il lume? Si direbbe, che queste candele sono prossime a spegnersi!

Il padre Giuseppe le guardò, e vide di fatti, che donna Chiara aveva detta la verità, e nel tempo medesimo rimarcò, che la portiera, che era tirata avanti la porta del salotto ove si trovavano, era fortemente agitata. Vi è qualche porta aperta in qualche luogo, disse egli alzandosi. — Voi non partite già per abbandonarmi, padre mio! gli disse donna Chiara, che dal timore era rimasta inchiodata sulla poltrona, ove sedeva, e che a mala pena osava di seguirlo con l’occhio.

Il padre Giuseppe non le diede risposta, ed era già nel vestibolo, in cui una circostanza, che egli osservò attrasse la di lui attenzione. La porta della camera di donna Isidora era aperta e le candele tutte accese. Entrato pian piano, e girato lo sguardo [p. 321 modifica]all’intorno, non vide persona; esaminò il letto: tutto indicava che nessuno vi avesse dormito in quella notte. In seguito la finestra ancora attirò l’attenzione di lui; essa corrispondeva sul giardino ed era aperta. Spaventato da quanto aveva veduto il buon padre non potè reprimersi dal mandare un grido che arrivò fino all’orecchio di donna Chiara: tremante ella voleva andare a raggiungerlo nell’appartamento della figlia, ma non ne ebbe la forza e cadde svenuta nel vestibolo. L’ecclesiastico chiamò soccorso e fu ricondotta nella di lei camera. Collocata di nuovo nella sua poltrona l’infelice madre non potè versare una lagrima; dessa conservava tutti i suoi sentimenti, ma non potendo parlare accennava con la mano e per mezzo di un movimento convulsivo, la camera di sua figlia, come se avesse desiderato di esservi trasportata. È troppo tardi! disse l’ecclesiastico servendosi, senza pensarvi, delle parole della lettera di don Francesco.