I grandi matematici greci
Discepoli e seguaci di Pitagora

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Grande maestro, Pitagora ebbe numerosi discepoli che si dedicarono con amore alle discipline alle quali egli li aveva avviati. Ognun d’essi, a sua volta, divenne un maestro, e creò nuovi cultori della scienza che, ad essa, recarono l’apporto del loro ingegno e del loro studio. Tutti si dedicarono in modo particolare allo studio delle aree, che caratterizzò, appunto la scuola pitagorica.

Zenone e Parménide, entrambi nativi di Elèa, grosso centro antico della Lucania, oggi Velia, e facenti parte della scuola di Elèa, o eleatica, della quale furono anzi i maggiori luminari, proseguirono e ampliarono gli studi di Pitagora, e pervennero alla definizione dei segmenti incommensurabili - ossia di quelli che non ammettono alcuna misurazione esatta - e al concetto degli enti geometrici, ossia del punto, ente privo di dimensione; della linea, ente con una unica dimensione; della superficie, ente con due dimensioni. Ma sia l’uno che l’altro non si limitarono a questi studi: filosofi profondi, Zenone fu anche grande polemista, e Parménide poeta, del quale ci resta un poema Della natura. Come vedete, amici miei, a quei tempi non esisteva la specializzazione, che è - sì - di aiuto a perfezionarsi in un genere di studi, ma che è anche limitatrice delle possibilità umane.

Oggi infatti ci si meraviglia di un matematico poeta, ad esempio, o di un fisico filosofo: segno evidente di inferiorità spirituale, questa meraviglia fuori di posto.

A Chio, ch’è un’isola dell’Egeo, nacquero, nel V secolo a. C. due matematici che seguirono le orme di Pitagora. tanto da essere considerati suoi seguaci e scientificamente suoi discendenti diretti. Uno di essi fu Oinopide, che risolse per suo conto alcuni problemi pratici di grande utilità, fra i quali importantissimo quello che si propone di abbassare la perpendicolare da un punto a una retta. Anche la costruzione di un angolo di ampiezza nota fu ideata e risolta da lui.

L’altro nativo di Chio, è Ippocrate, da non confondersi con Ippocrate di Coo, il più grande medico dell’antichità. Quello di Chio è uno dei più grandi geometri dell’epoca, ed è un classico esempio di completa dedizione alle matematiche. Ippocrate non conosceva altro, non sapeva altro, non viveva per altro che per la matematica. Tutto il resto per lui non esisteva, ed egli era lieto di ignorarlo. Il grande filosofo greco Aristotele che visse in periodo immediatamente seguente al suo, lo giudicò grandissimo matematico, ma grande ignorante nel resto dello scibile «purus mathematicus, purus stupidus». (Riprova, se fosse necessario, della verità di quanto dicevo più su: che la limitazione della specializzazione - follia dei tempi moderni - non era apprezzata in quell’epoca così ricca di ingegni, e anzi di genii).

Ippocrate ha un gran merito: quello di aver usato le lettere per indicare gli enti geometrici, ciò che - come voi tutti ben sapete - facilita enormemente lo studio, l’applicazione e le dimostrazioni.

Astronomo, matematico e musico fu un altro studioso di Pitagora del secolo successivo, nato a Taranto. Si chiamava Archita, e fu anche un valoroso generale. Risolse numerosi problemi, fra i quali il famoso problema di Delo. Era questo un quesito proposto dall’oracolo di Delo, in occasione di una terribile pestilenza: «per guarire dovete duplicare il cubo». I Greci fecero il cubo di doppio lato e lo portarono all’oracolo: ma la pestilenza infuriò ancora più tremenda. I matematici compresero che bisognava costruire un cubo di volume doppio, e si diedero al lavoro, ma inutilmente. Platone, richiesto del suo giudizio, dichiarò che all’oracolo nulla importava del cubo, ma che il quesito posto aveva il solo scopo di avviare i greci allo studio della Geometria. Tuttavia i matematici perseverarono, e dopo Ippocrate di Chio, tentò Archita, che trovò la soluzione. Costruì cioè il cubo di lato l3√2, dove l è il lato del cubo originario. Non vi spaventate dinanzi a questa formuletta (non parlo, si capisce, per gli eroi della 3a media) che, in fondo, salvo il fatto della radice cubica, è molto semplice; del resto la colpa è di quel bel tipo di Archita che, oltre a tutto quello che ho già detto, era anche filosofo. A lui quella linguaccia di Aristotele non avrebbe potuto dire quello che disse di Ippocrate: cosa ne pensate, voi?

Discepoli e seguaci della scuola pitagorica potrei ancor citarvene parecchi, ma non aggiungerebbero gran che alla gloria del maestro: perciò preferisco passare a parlarvi di un altro grandissimo, del quale, veramente, avrei dovuto far cenno prima, perché precedente a Pitagora. Ma vi dissi già i motivi per i quali ho ritenuto dar la precedenza al glorioso figlio di Samo.