Matematica allegra/1b
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Il linguaggio dei numeri
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È chiaro che il numerare le cose rappresentò una necessità immediata della vita, per i popoli primitivi. Il saper contare fu così la prima abilità che ad essi fu richiesta dalle esigenze stesse della loro esistenza, per piccola che fosse. Logicamente, per risolvere questo problema pratico, essi ricorsero ai mezzi che avevano a disposizione. Dio aveva dato loro dieci dita, e appare naturalissimo che a questi dieci elementi si riferissero, nel numerare gli oggetti: e non è escluso che usassero anche le dieci dita dei piedi allo stesso scopo. Un uso antichissimo fa numerare ancor oggi a ventine le pecore ed altre cose, in qualche interno paese dell’Inghilterra: e per venti numeravano anche gli Aztechi.
Conseguenza immediata di questa necessità fu che quasi ovunque ai numeri venissero dati i nomi delle dita: in molti dialetti antichi, i dieci numeri e le dieci dita avevano uguale etimologia.
Ma i popoli primitivi - che, spinti dalla loro stessa conformazione fisica, avevano in tal modo dato vita alla numerazione decimale - non sapevano andar oltre il dieci, e non avevano termini che indicassero i numeri superiori a tale limite, superato il quale, indicavano l’insieme delle cose col termine di mucchio, o cumulo.
Circa la rappresentazione dei numeri, il numero cinque è generalmente indicato con una mano aperta, disegnata in modo più o meno sintetico: e da quanto ho detto prima, non apparirà strano che quasi sempre le due parole indicanti la mano e il cinque abbiano la stessa radice. In tempi molto lontani della prima vita umana, il cinque servì di base alla numerazione, e i numeri ad esso superiore venivano indicati come cinque o multipli di cinque maggiorati di un numero fra l’1 e il 4. Presso alcuni popoli, quali gli Aztechi e gli originari di Giava, anche il tempo era diviso in periodi di cinque giorni, che separavano il giorno di festa dal successivo: in parole semplici, le settimane erano per essi di cinque giorni. Per venire ad un periodo più a noi vicino, la notazione romana V ci riporta schematicamente alla mano aperta, mentre l’altra X ha - senza dubbio la sua spiegazione più elementare nella doppia notazione del V. E si noti che questi segni sono di molto precedenti la fondazione di Roma: e risalgono forse agli inizi della civiltà etrusca. Pochissimi sono i popoli antichi e tuttora allo stato primitivo, dei quali conosciamo il sistema di numerazione, che non usano il 5 o il 10 come base: fra questi i Bolan dell’Africa Occidentale che avevano per base il 7, e alcune tribù maore che avevano invece l’11.
Un altro modo di rappresentazione scritta dei numeri, come ho già accennato, è basato su gruppi di tratti: un tratto, due tratti, tre tratti, ecc... per rappresentare l’uno, il due, il tre. Gli egiziani nei loro geroglifici rappresentavano ogni unità con un dito, epperciò i numeri erano formati da tante dita quante unità conteneva il numero stesso.
I Romani, ed anche gli Etruschi, invece, usarono per i numeri base segni diversi. Alcune notazioni romane non sono altro che la lettera iniziale dei numeri: C per centum, M per mille, ecc...; mentre i simboli L per 50 e D per 500 ci riportano alla metà dei simboli usati per cento e per mille, intendendosi naturalmente una metà grafica approssimativa. Le forme composte, come IX per 9 e XI per 11, VC per 95, ecc... nelle quali i numeri a sinistra della cifra maggiore dovevano essere sottratti e quelli a destra aggiunti alla cifra maggiore stessa, sono di creazione e di applicazione posteriore. Con tale sistema il numero CMC è uguale a 1000 meno 100 più 100, ossia 1000.
Anche nella Grecia, e precisamente nella sua zona più progredita, l’Attica, la maggior parte dei segni, derivavano dai nomi che indicavano il numero rappresentato: π (pi) per 5, Δ (delta) per 10, H (eta) per cento, X (chi) per mille, ecc... Strana la notazione del 50, che era indicato mediante un Δ (delta) chiuso in un π (pi): probabilmente per indicare che il 50 era costituito da un numero di Δ uguale a π.
Ma questo sistema che, a prima vista, appariva semplice e facilmente applicabile, non fu sempre usato da tutti i Greci: altri sistemi furono usati nelle varie regioni, tutti più o meno pratici. Nel 3° secolo avanti Cristo, ad Alessandria nacque un nuovo modo, che si chiamò infatti alessandrino, e ch’era insieme di difficile applicazione, e assai complicato, per il calcolo. Consisteva esso in ciò: i numeri dall’1 al 9 erano rappresentati dalle prime 9 lettere dell’alfabeto; le decine dal 10 al 90 dalle successive 9 lettere; le centinaia, da 100 a 900 dalle successive 9 lettere. Ma per far ciò occorrevano 27 lettere, e l’alfabeto greco non ne aveva che 24. Si fece ricorso allora a due lettere non più in uso dell’alfabeto stesso, il digamma e il hoppa, nonché a una lettera dell’alfabeto fenicio detta sampi. Per mezzo di semplici composizioni si potevano cosi avere i numeri intermedi, ossia quelli fino al 999: per mezzo di suffissi e di indici si giunse a rappresentare i numeri fino a 100 milioni. Ma appare subito ai vostri occhi scaltriti, miei giovani lettori, quanto fosse complicato e... indigesto questo sistema, nel quale i simboli che indicavano i numeri non avevano coi numeri stessi alcuna attinenza, né li richiamavano in modo alcuno alla memoria.
Non era assolutamente possibile eseguire il calcolo diretto su quei simboli così come noi usiamo fare oggi, epperciò i greci furono costretti a ricorrere alla costruzione di abbachi, o ad altri sistemi meccanici, per l’addizione e la sottrazione; e a particolari tavole di moltiplicazione (una ne aveva costrutta Pitagora, del quale vi parlerò in seguito, da oltre un secolo). Il che, in un certo senso, costituì un vantaggio per il calcolo in particolare, e per l’aritmetica in generale.
Se fra voi, miei lettori, c’è qualche bricconcello che non riesce a portare a termine con esattezza una operazione, si consoli pensando che a quei tempi solo grandissimi matematici quali Erone e Teone riuscivano ad eseguire moltiplicazioni e divisioni in modo esatto. Per eseguire una moltiplicazione essi procedevano in modo formalmente diverso, ma sostanzialmente uguale a quello che noi usiamo oggi, applicando cioè la proprietà distributiva del prodotto.
Dovendo per esempio moltiplicare 25 per 27, essi procedevano così: 25 x 27 = (20 + 5) (20 + 7) = 20 (20 + 7) + 5 (20 + 7) = (20 x 20) + (20 x 7) + (5 x 20) + (5 x 7) = 400 + 140 + 100 + 35 = 675. Noi facciamo lo stesso, segnando subito i prodotti parziali di 5 x 27 e di 20 x 27 uno sotto l’altro, per poi sommarli
In Italia si usarono vari sistemi per la moltiplicazione, e di essi fecero cenno nelle loro opere i due matematici del XV e XVI secolo: frate Luca Pacioli e Niccolò Tartaglia: molto usata e di cognizione generale era la tavola di moltiplicazione fino al 5 x 5, dalla quale, mediante una formuletta (la regula ignavi) potevano essere calcolati tutti i prodotti fino al 10 x 10. Se proprio vi interessa, la regoletta era la seguente: (5 + a) (5 + b) = (5 - a) (5 - b) + 10 (a + b), che come appare evidente, può essere tutta calcolata giocando sulle dita della mano. Ma questo a voi, miei cari matematici in erba che avete sulla punta della lingua la tavola pitagorica, non interessa affatto: a voi interesserà forse di più sapere che il sistema di fare la moltiplicazione che noi usiamo è nato a Firenze, così come tante altre cose belle dell’aritmetica delle quali abbiamo già parlato.
Il principio della prova del 9, ossia dell’eliminazione dei 9 dal calcolo per provarne l’esattezza fece le sue prime apparizioni in India, e fu poi precisato e applicato largamente dagli Arabi. E qui lasciate che apra una parentesi, quadra o rotonda come preferite: la prova del 9 che i testi dì aritmetica continuano a propinare e a consigliare agli scolari è una delle cose più inutili che si insegnino nelle scuole elementari. Infatti, per quella proprietà della somma che si chiama commutativa, il risultato della somma stessa è indipendente dal posto dei suoi addendi: epperciò agli effetti della prova del 9 il numero 3924 equivale al numero 9423. In parole povere. se il risultato di un’operazione è 3924, e voi avete scritto 9423, per la prova del 9 voi non avete sbagliato, pur avendo sbagliato, e come! Morale: non ricorrete mai alla prova del 9, e abituatevi perciò a non sbagliare nel calcolo.