Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XLIII

Capitolo quarantatreesimo - Amori sfrenati - Inclinazione al delitto

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Capitolo quarantatreesimo - Amori sfrenati - Inclinazione al delitto
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- Da quanto tempo hai preso moglie? - riprese a domandare la contessa, col piglio indifferente di chi interroga più per distrarsi ed ammazzare il tempo che per curiosità.

- Da due anni.

- E non l’hai ancora tradita?

- Eh! qualche volta.

La vestaglia della contessa non più trattenuta dal cordone s’era aperta fino ai piedi. Ella ne raccolse i lembi per incrociarla sul petto; ma lo fece così lentamente che tutta la sua persona divinamente modellata e rosea, sotto le trasparenze della camicia e per riverbero della fodera di raso rosso, apparve riflessa dalla specchiera agli occhi avidi del cocchiere. Questa volta fu il di lui sguardo fiammeggiante che si incontrò col suo. Il momento psicologico si avvicinava.

- Hai dunque un amante? - chiese la signora poggiando la testa alla spalliera della poltrona, in un atteggiamento di completo abbandono.

In quell’istante un tizzo acceso, quasi mosso da una segreta influenza, cadde fuori del caminetto, vicino ai piedini della contessa. Saverio si precipitò per raccoglierlo e inginocchiandosi si appoggiò alla poltrona, sfiorando colla mano febbricitante la persona della signora, che si era rovesciata completamente sul dorso ed aveva chiusi gli occhi. Saverio dissennato la cinse con ambe le braccia, incollò le proprie alle labbra di lei e l’ebbe.

Per tutta la notte Giacinta lo attese invano nel vedovo letto. Da quella sera fatale la relazione fra la padrona e il cocchiere diventò sempre più intima, salda, tenace: la passione divampava terribile in entrambi e colla passione la gelosia della contessa per la moglie dell’amante. Non volle più che Saverio andasse a casa a dormire e giunse ad impedirgli per intere settimane di vedere Giacinta. La povera donna era ancora lontana dallo spiegarsi la cagione di quel contegno del marito. Gli rimproverava la sua freddezza, e come al solito fanno tutte le mogli disgraziate, a furia di querimonie, di scene, di seccature, gli si rese uggiosa, insopportabile. D’altra parte l’amore della contessa diventava ogni giorno più esigente: ella avrebbe voluto assorbire in sé tutta la vitalità di Saverio. Una notte, in uno di quei momenti di delirio nei quali la ragione umana affoga, gli domandò a bruciapelo.

- Che te ne fai di Giacinta? Perché non te ne liberi?

- Le ho detto tante volte d’andarsene, che io la lascio libera della sua vita. Ma da quell’orecchio non ci sente.

- E quando pure se ne fosse andata, a che gioverebbe?

- A non aver seccature.

- Non basta, non basta! Io ti voglio, mio, tutto mio.

- Non lo sono forse?

- Voglio che tutti lo sappiano.

- Pochi l’ignorano ormai.

- Sanno che sei l’amante della padrona e forse ti disprezzano...

- Che me ne importa, se io sono felice, beato del tuo amore?

- Se non importa a te, importa a me.

- Ebbene?

- Devi essere mio marito.

- Sai che è impossibile.

- Impossibile? Sciocco.

Per quella notte la contessa non disse di più. Temeva di alienarsi l’animo di Saverio. Bisognava lasciargli il tempo di abituarsi all’idea di sbarazzarsi per sempre della moglie, di famigliarizzarsi, per così dire, col delitto, ch’ella gli suggeriva.