Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XLIV
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La sinistra idea era ormai penetrata nella testa di Saverio e gli mordeva il cervello. Si provava a discacciarla, ma essa tornava insistente, provocante, inesorabile. Per parecchi giorni si provò a stordirsi colla crapula. Ma, in mezzo all’orgia, la figura della sventurata Giacinta gli si levava innanzi come uno spettro minaccioso. Ed egli sentiva il bisogno, sentiva una voglia irrefrenabile di sbarazzarsene. Si trovava in preda ad una specie d’ossessione del delitto.
La contessa comprendeva la battaglia che si combatteva nell’animo del cocchiere e lasciava ch’essa avesse il suo completo svolgimento, senza una parola di incitamento. Solo continuava ad inebbriarlo di amore, estenuando quasi la sua fortissima fibra. Ma la resistenza durava troppo. Saverio, perfettamente deliberato ad uccidere la moglie, desideroso di finirla una buona volta, non sapeva decidersi a farlo, e rimetteva il delitto da un giorno all’altro, dalla sera alla mattina e viceversa. La contessa pensò quindi di mutar sistema e d’indurlo all’esecuzione del misfatto, negandogli i suoi favori finché non l’avesse compiuto, poiché il prodigarglieli non aveva valso. E così fece.
In capo ad una settimana Saverio era in preda al delirio erotico. La contessa lo provocava ad ogni istante e ostinatamente gli si rifiutava; ora con un pretesto ora con un altro, e finalmente una notte giunse a dirgli:
- Tu non mi piaci più. Tu mi annoi.
Saverio si levò dal letto, ove si trovava colla contessa, si vestì ed uscì, senza ch’ella gli rivolgesse una sola parola. Andò a casa e penetrò senza farsi udire nella camera nuziale. La Giacinta dormiva; ma pareva in preda ad un incubo; aveva la respirazione affannosa; tutte le membra convulse; le labbra agitate da un tremito; la fronte madida di sudore. Saverio vide tutto ciò al fioco lume della lampada notturna, posata sul tavolino accanto al letto, e si sentì invadere da un senso di pietà. La persona di Giacinta, nell’avvoltolarsi ch’ella aveva fatto fra le coltri, era rimasta tutta scoperta e le sue bellissime forme si offrivano allo sguardo del marito, caste pur nelle loro nudità. E al sentimento di pietà che lo aveva invaso, incominciavano ad aggiungersi le memorie dell’antico amore, che quella donna gli aveva ispirato e per il quale l’aveva fatta sua moglie. Egli aveva nella mano destra il coltello affilatissimo che s’era procurato per perpetrare il delitto; ma, mentre cercava il punto dove doveva ferire, il suo sguardo divagava fra le dolcezze del petto squisitamente modellato e il candore del ventre, non ampio, lievemente tondeggiante e ombreggiato.
D’un tratto Giacinta si svegliò, si portò la mano al petto, come volesse farsi schermo, e aperti gli occhi riconobbe Saverio, che si protendeva sopra di lei col coltello tutt’ora imbrandito.
- Ah! Non è un sogno dunque? - esclamò e aggiunse con accento di amarezza e di disprezzo insieme: assassino!
Quell’insulto fu la sua sentenza di morte. Se non l’avesse pronunziato, forse Saverio le sarebbe caduto ai piedi, le avrebbe chiesto perdono, l’avrebbe baciata, abbracciata, amata come un tempo; si sarebbe inebbriato delle sue carezze; i suoi amplessi gli avrebbero fatto dimenticare quelli della contessa, fors’anco glieli avrebbero resi odiosi. Quell’insulto gli fece salire il sangue al cervello, vide una nebbia rossa innanzi agli occhi e sentì uno zampillo di sangue rosso che gli bagnò la mano e il volto. La sua destra, quasi inconsciamente, aveva trapassato coll’affilato coltello il cuore della povera donna.
Giacinta non proferì un verbo. Volse al marito uno sguardo pieno d’amore e di perdono e spirò. Saverio fu preso dalle vertigini del terrore. Voleva fuggire e si sentiva come incatenato al letto. Un braccio del cadavere irrigidito era steso verso di lui ed egli si sentiva come afferrato da quel braccio: fece atto di svincolarsi e lo piegò verso il petto della morta, ma il braccio con moto anastaltico si protese nuovamente verso di lui.