Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XLI
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Nove giorni dopo l’esecuzione dei cinque briganti della Faiola, dovetti trovarmi a Collevecchio per mazzolarvi e squartarvi Gioacchino De Simoni, l’uxoricida più singolare che sia passato per le mie mani. Era un giovane contadino di non più di venticinque anni innamorato pazzamente di sua moglie Cencia, una donna della stessa sua età, di forme opulenti, leggiadra di volto, procace negli sguardi e negli atteggiamenti e spirante da tutti i pori una cert’aria di sensualità, non certamente fatta per tranquillare le angustie di un marito geloso. Gioacchino lavorava assiduamente, giorno e notte per procurare alla sua Cencia tutti gli agi, tutti i conforti della vita, ch’erano compatibili con la loro posizione economica e col loro stato.
Egli non voleva che sua moglie accudisse ad altro che alla casa; le inibiva assolutamente le fatiche campestri, perché temeva che il sole avesse a sciupare la freschezza della sua pelle bianca e vellutata, a rendere dura la dolce linea delle sue spalle rotonde e delle sue braccia flessuose, di quelle braccia, i cui amplessi lo facevano delirare. I migliori bocconi del pranzo e della cena erano per lei; pur vestendo il costume del paese i suoi abiti erano i più fini ed eleganti; la sua casa, per quanto villereccia, era pulita e fornita di tutto l’occorrente. Aveva un magnifico letto a spalliere di legno castano coi sacconi di foglie di panocchie di mais, materassi di buona lana e di finissima piuma, coltri morbide, lenzuoli di tela candida e una ricca coperta di broccato. Era l’ara dove celebrava i suoi riti coniugali e aveva voluto che fosse degna della sua dea e delle ebbrezze che gli procurava.
Gioacchino De Simoni era aitante di persona e di simpatico aspetto. Prima di sposare la Cencia una diecina di fanciulle avevano sospirato per lui, e ammogliato invidiavano la fortuna toccata alla donna che l’aveva sposato. Ma è raro il caso che marito innamorato non sia marito ingannato. I sacrifici che fate per una donna essa non li considera che come un tributo dovutole; essa aumenta il concetto di sé medesima e cresce per conseguenza le sue pretese in ragione dell’affetto che le portate. Gioacchino non aveva minuto libero che non fosse a lei consacrato. Ma questi minuti erano scarsi, perché l’innamorato giovane lavorava sempre per far lieta e gioconda la vita della sua donna. La Cencia dopo pochi mesi di matrimonio era stanca ed annoiata della solitudine in cui scorrevano le sue giornate e parte delle sue notti. Non essendo del paese, non aveva amiche, ma semplici conoscenze; non aveva parenti; spesso non sapeva come ammazzare il tempo, perché poco esperta nei lavori muliebri. E intanto incominciavano a farsele intorno i giovani più scapati di Collevecchio. Quando la vedevano sul portoncino di casa le ronzavano attorno e cercavano di appiccar discorso con lei. Cencia rispondeva brevemente, perché temeva d’essere sorpresa da Gioacchino, ma incominciava a pregustare le delizie del frutto proibito.. Tra i molti che la corteggiavano si trovò uno, Menico Baldassini, che più degli altri le andava a versi. I colloqui sul portoncino diventarono più frequenti e più lunghi, finché un bel mattino, data un’occhiata intorno alla strada deserta ed assicuratisi che nessuno li vedeva, i due entrarono in casa.
Da quel dì, Menico tornava tutti i giorni dalla Cencia e vi rimaneva lunghe ore. La sua relazione si faceva sempre più intima; esordita come svago, era diventata una passione che assorbiva tutte le loro facoltà. Non vivevano che per amarsi e per godere. E intanto Gioacchino lavorava, inaffiando di sudore le glebe ed irrorandone i teneri germogli. Menico non entrava più dalla porta di strada, bensì da quella dell’orto, che immetteva nella stanza da letto nella quale entrava scavalcando una siepe. Ed erano abbracci, e carezze senza numero e senza fine. Cencia divideva con lui il suo asciolvere, stendendo la bianca tovaglia sopra un tavolino della camera nuziale, proprio accanto al talamo contaminato. Mangiavano nello stesso piatto, bevevano nello stesso bicchiere, mischiando bocconi, sorsi e baci, tuffandosi in una ridda di voluttà perenne. Gioacchino naturalmente nulla sapeva e nulla sospettava. La Cencia preferiva l’amante, ma non cessava di prodigarsi al marito come la consigliava la prudenza e forse la spingeva la sensualità. Verso il meriggio di una tepida ed aulente giornata de’ primi di maggio, Gioacchino inebbriato dagli olezzi agresti, dall’acuto profumo dei fieni mietuti, provando una immensa sete d’amore si diresse a casa, per abbracciare la sua Cencia. Giunto presso la porta della stanza da letto, verso l’orto, sentì un sommesso cicalio di voci umane e si fermò:
- M’ami? chiedeva Cencia a Menico.
- Più della vita. E tu?
- T’adoro, angiolo mio. Se tu non fossi, che vita orrenda sarebbe la mia!
- Gioacchino?
- Non me ne parlare, vorrei essere sempre tua, tutta tua, solamente tua.
E le parole dei due amanti morirono nello scambio di un bacio. Il povero tradito fece un passo, si accostò alla porta e vide la sua donna seduta sulle ginocchia di Menico, in completo abbandono, col guarnello rimboccato sulle ginocchia, il seno prorompente dal busto, cinta la vita da un suo braccio, e con una mano ne’ di lui capelli. Una nube di sangue gli velò gli occhi, ma ebbe la forza di fuggire. Errò pei campi tutto il giorno come un pazzo; soltanto la frescura della sera parve ridargli un po’ di calma. Un furor freddo sottentrò alle sue furie: rincasò tardi e trovò la moglie già coricata. Aveva concepito l’idea di una terribile vendetta e s’accinse a compierla. Riempì un immane braciere di carbone e l’attizzò, finché lo vide in perfetta combustione. Poi prese due cavalletti e li pose a distanza di cinque palmi all’incirca e li assicurò al suolo, perché potessero resistere a qualunque scossa.
- Che fai? - gridò la Cencia dalla stanza da letto, svegliata da quel martellare.
- Preparo la mia cena.
- Ti prepari una scorpacciata di chiodi arrugginiti - disse la donna ridendo, e voltatasi dall’altra parte si riaddormentò.
Gioacchino preparò quindi un piccolo bavaglio e delle funicelle sottili ma resistenti, e terminati i preparativi, passò nell’altra stanza e si accostò al letto. Cencia, mezza insonnolita, gli porse la bocca aperta per un bacio: Gioacchino le ficcò il bavaglio fra le labbra e i denti, e, in un baleno le cinse i polsi e le caviglie colle funicelle, senza ch’ella potesse dare un grido. Sollevatala di peso la portò in cucina; adagiatala sui cavalletti, l’assicurò ai medesimi per le braccia e per le gambe, strettamente legandola, le pose sotto le reni il braciere ardente e stette a vedere l’effetto della combustione, assaporando a goccia a goccia l’atroce vendetta. Sulle prime il corpo della Cencia dava in sussulti frequenti e, ad onta del bavaglio, le uscivano dal profondo del petto cupi gemiti. Ma non durò molto a sopraggiungere l’immobilità. L’orrendo supplizio durò più di un’ora, in capo alla quale le belle forme della sposa infedele erano completamente carbonizzate. La puzza di bruciaticcio e il fumo uscivano dalla porta spalancata verso l’orto, ma s’infiltravano pure per le fessure di quella verso la strada, diffondendosi per le vie, e Gioacchino sentì dire da una comitiva di giovanotti che passava:
- De Simoni va cuocendo un quarto di capretto per la cena della Cencia e non sa che gliele mette tanto lunghe.
Un riso sinistro, diabolico, gli sfiorò la bocca smorta e contratta. Sorta l’alba, chiuse diligentemente le due porte, uscì e andò dal bargello.
- Chi siete? - gli chiese questi.
- Gioacchino De Simoni.
- Che volete?
- Vengo a consegnarmi alla giustizia.
- Perché?
- Perché ho ammazzato mia moglie.
- La cagione?
- Mi tradiva.
- Per così poco avete uccisa una donna? Non sapete che se tutti i mariti si comportassero così, presto il mondo si spopolerebbe.
Gioacchino ebbe il coraggio di sorridere delle facezie del bargello, ma un sorriso che metteva terrore.
- Come l’avete ammazzata? - riprese il degno funzionario.
- L’ho abbruciata viva.
- Seguite le buone tradizioni della Santa Inquisizione dunque? Bravo! Questo vi procaccerà forse le buone grazie dei giudici.
Gioacchino fu ammanettato e, preceduto dal bargello, circondato dai birri, fu condotto a casa sua. La gente si affollava dietro al corteggio e quando fu aperta la porta della sua casa, vi irruppe. L’orrendo spettacolo strappò grida di indignazione, e i birri non ebbero a faticar poco per sottrarre l’uxoricida al furore della folla. Le donne erano le più infuriate, le più inasprite. Lo coprirono d’ingiurie e di vituperi e lo accompagnarono fino al carcere lanciandogli immondizie e sputi. Gioacchino De Simoni procedeva impassibile, non dando alcun segno né di rabbia, né di dispiacere, né di dolore. La vendetta consumata lo aveva talmente soddisfatto, che qualsiasi pena gli sarebbe parsa leggiera.
Il processo fu subito istruito e prestamente sbrigato, perché il reo era confesso e diede tutti i particolari dei quali i giudici vollero essere informati. Ascoltò la sentenza che lo condannava alla mazzolatura ed allo squartamento senza batter palpebra. Esortato a confessarsi, disse di non aver nulla sulla coscienza a rimproverarsi; che il suo delitto era un castigo ispiratogli da Dio e respinse qualsiasi conforto. Mosse al patibolo con fermezza e subì il supplizio, al quale s’era da lungo preparato, colla massima indifferenza e lasciando un’impressione indelebile nella folla accorsa ad assistervi.