Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXXXI

Capitolo ottantunesimo - A qual punto porta la dissolutezza

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Capitolo ottantunesimo - A qual punto porta la dissolutezza
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Tagliacozzo tornò dallo strozzino, ma per quanto battesse e ribattesse il chiodo non gli venne fatto di cavargli un soldo.

- Non c’è proprio nessun modo di trovar quattrini colla mia firma? chiese alla perfine il giovane dissoluto.

- Colla vostra firma no.

- Se trovassi quella di qualche amico?

- Peggio che andar di notte. I vostri amici sono più indebitati di voi e non hanno neppure la speranza di uscir un giorno o l’altro dagli impicci.

- Che firma vorreste dunque.

- Quella di vostra madre.

- La firma di mia madre? Impossibile; quando mai mi darebbe i denari.

- Andate dunque a chiederglieli.

- Mi farebbe chiudere in un manicomio.

- Inutile perdere il tempo in altri discorsi.

- Portandovi la firma di mia madre.

- Aspetterò fino alla scadenza della cambiale, per verificarla.

- Ah! Ma è orribile ciò che mi proponete.

- Io non vi propongo nulla.

Pietro, aveva compreso ciò che voleva il giudìo, avere in mano un documento che costringesse la vecchia a pagare per salvare il suo onore. Ma per quanto corrotto l’idea di commettere un falso gli ripugnava.

Tornò da Lalla a mani vuote. S’era messo a stare con lei e in tutti i modi bisognava provvederle. Tirò innanzi per alcuni giorni a furia di spedienti. Ma la sua dolce amica, ne fu presto stufa e gli disse chiaro e tondo che le si levasse dai piedi. Di un amante pitocco non sapeva che farsene. All’indomani mattina Pietro Tagliacozzo portava al giudìo una cambiale di diecimila lire colla firma della madre, naturalmente fatta da lui. Il giudìo sogghignò e gli sborsò settemila lire. Lalla gli ridonò subito il suo affetto. Un mese dopo la scena si ripeté, e così il successivo. Così giunse la scadenza della prima cambiale falsa. Prima che fosse presentata Pietro si recò ad Olevano. La madre che nulla ancor sapeva fu lieta di rivedere il suo figliuolo e gli prodigò tutte le più festose accoglienze. Cenarono insieme, e quando ebbero finito la madre disse di esporle la ragione che l’aveva condotto al paese.

Pietro esitava. Avrebbe voluto chiederle i denari per pagar lui la cambiale e lasciar ignorare la perfidia commessa, ma non se ne sentiva il coraggio. Finalmente buttò fuori l’audace parola:

- Mamma, mi servono duemila scudi.

La vecchia balzò sulla sedia, come se fosse colta da un moto sussultorio, e diede in escandescenza.

- Mamma, mi sono indispensabili. Ci va del mio onore.

- Ma che onore, che onore! Scavezzacollo impenitente, urlò la vecchia.

Pietro era diventato pallido come un morto, pregò, supplicò la madre, in ginocchio colle lagrime agli occhi, singhiozzando.

Non riuscì a niente, e il disgraziato si trovò costretto a rivelarle il fatale segreto delle firme falsificate. L’indignazione della vecchia a tale notizia non ebbe più limiti. Vomitò contro il figlio ogni sorta di vituperi e concluse che l’avrebbe denunziato ella stessa alla giustizia. Preferiva saperlo chiuso in galera, che libero a commettere nuovi delitti.

- Salvami, mamma! - scongiurava l’infelice, madido di freddo sudore.

- No, no, no. Mille volte no. Quando bene mi fossi ridotta sulla paglia per salvarti, torneresti da capo, e falsificheresti altre firme, o commetteresti qualche altro delitto. In galera, infame, in galera! Ci sei predestinato.

Pietro pazzo di furore a questa terribile invocazione, balzò addosso alla inesorabile vecchia e stringendole con ambo le mani il collo, la rovesciò al suolo.

- Assassino! - mormorò la madre colla voce soffocata - Matricida!

E più non disse, perché le mani di Pietro Tagliacozzo s’erano mutate in una morsa, e stringevano, stringevano sempre, stringevano convulsamente.
Quando il giovane ricuperò un barlume di ragione e lasciò il collo della sua vittima, la povera vecchia era morta e irrigidita.
Accortosene, Pietro Tagliacozzo fuggì inorridito dal teatro del suo delitto ed errò tutta la notte, come un pazzo per la campagna dei dintorni di Olevano. Fu raccolto sul far dell’alba, da una pattuglia in perlustrazione, in preda al delirio e confessò subito l’orribile misfatto. Furono costretti a mettergli la camicia di forza, perché tentò reiteratamente di suicidarsi. Il pentimento di Pietro Tagliacozzo, fu pari all’enormità del crimine. Condannato all’estremo supplizio, dichiarò solennemente d’averlo meritato, ringraziò i giudici e li pregò di sollecitare l’esecuzione.

Questa seguì, per mia mano, il 19 gennaio 1842, a Roma, ove era stato trasferito, in via de’ Cerchi. La sua compunzione, lo strazio dell’animo del quale evidentemente soffriva e il coraggio con cui mosse nondimeno al patibolo, accompagnato dal confessore e dai frati confortatori, destarono un senso di commiserazione profonda.

Lalla ebbe l’impudenza di assistervi da una finestra, ma riconosciuta da taluno e additata dalla folla, ne suscitò l’indignazione, che si tradusse in imprecazioni e minaccie; per le quali dovette ritirarsi e nascondersi. All’indomani un decreto del fiscale la espelleva da Roma.