Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXXXII

Capitolo ottantaduesimo - Un triste Don Giovanni

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Cesare Abbo aveva portato dalla natura un temperamento estremamente lussurioso. Appartenente a famiglia ricca e di ottime origini, che godeva di gran credito nella migliore società, egli si era abbandonato giovanissimo a tutti gli eccessi, ed aveva sciupato il proprio patrimonio nel giuoco, nella crapula, negli stravizi di ogni genere, seminando il sentiero della sua vita di vittime infelici della sua foia.

Non una donna poteva passargli vicino senza ch’egli tentasse di farla sua colla violenza o colla seduzione, sorprendendola e assoggettandola per forza alle sue voglie, se gli veniva fatto, ingannandola con mentite proteste d’amore, o guadagnandola coll’oro, che spargeva a piene mani, se non gli era stato concesso di possederla altrimenti. Egli non conosceva ostacoli, in una parola. Quando incontrava delle difficoltà i suoi desideri si acuivano e diventavano irresistibili, e per appagarli non rifuggiva da qualsiasi mezzo.

Alto e ben proporzionato della persona, dotato di un vigore erculeo, coll’ampio torace eretto, lo sguardo ardito e provocante, la bocca estremamente sensuale, Cesare Abbo spirava ed aspirava voluttà per tutti i pori e incontrava spesso le simpatie muliebri. Ma nessuna passione durava a lungo in lui. Spossato dai godimenti di una notte, era capace di abbandonare e di respingere il giorno dopo l’incauta donna, per la quale aveva commesse le più grandi pazzie alla vigilia. Le sue avventure correvano su tutte le bocche, ne’ crocchi della gente poco scrupolosa, ed erano argomento di perenni facezie di incitamenti erotici. Si parlava di lui come di un Don Giovanni della peggiore specie.

Si narrava che una notte in un albergo aveva sorpreso una signora sola, penetrando dalla propria nella camera di lei dopo averne forzata la porta. La signora aveva tentato di chiamare aiuto, ma egli le aveva posto un bavaglio alla bocca e non potendo trarla per amore a soddisfare il suo capriccio, l’ebbe colla violenza e dopo averne oscenamente abusato fino al mattino, non sapendo come sottrarsi alle conseguenze del suo misfatto, la legò sul letto per le gambe e per le braccia con delle salviette, quindi, indossati gli abiti della signora, se ne fuggì, dopo essersi calato sul volto il fitto velo del cappellino che ella portava, lasciandola in quella terribile posizione. Quando i camerieri entrarono nella camera della disgraziata e la liberarono, Cesare Abbo aveva già lasciato la città e non ci fu verso di rintracciarlo.

In un’altra occasione, incaricato da un amico di portare sue notizie alla propria moglie, si reca da lei per eseguire la commissione avuta e viene dalla signora accolto colle migliori cortesie. Ma le grazie soavissime di quella donna giovane e bella lo incantano, lo abbagliano, gli danno le vertigini. D’un tratto interrompe bruscamente il discorso e, afferrandole la candida mano, le dice con accento inesprimibile:

- Sofia!

La signora stupefatta, cerca di ritirare la mano, ma Cesare la trattiene e continua ad investirla.

- Sofia, io ti amo.

- Signore - risponde indignata la signora, voi dimenticate dove vi trovate e con chi parlate.

- Mi trovo accanto ad un angelo e parlo colla più cara, la più avvenente, la più vezzosa delle donne.

- Queste parole che io dovrei respingere in qualunque momento le pronunziaste, sono ora un insulto per me. Ricordate che siete qui presentato da una carta di mio marito, di un vostro amico, che si è affidato alla vostra lealtà.

- Parole, parole, Sofia, inutili parole. L’amore è una fiamma che divampa improvvisa, o non è.

- Io respingo questo amore, che voglio ritenere per un’aberrazione istantanea.

- Aberrazione sarebbe per noi non aprofittare delle gioie che ci promette questo involontario incontro. Forse tuo marito in questo momento medesimo, fa con un’altra, ciò che io desidero fare con te. Amiamoci Sofia. Val più un’ora d’oblio e d’ebbrezza che vent’anni di felicità calcolata, autorizzata, legittimata da quella scempiaggine che è il matrimonio.

Atterrita da questo impudente linguaggio, la signora resta perplessa. Vorrebbe evitare lo scandalo e cerca di persuadere colle buone l’audace a desistere dai suoi insani progetti.

- Io non giungo a spiegarmi - gli dice - questa follia, dalla quale siete assalito. È una sventura per me, l’avervi destato dei sentimenti che non posso dividere, non debbo assecondare.

- Perché?

- Dimenticate dunque la mia condizione? S’anco una lontana simpatia mi rendesse meno insensibile alle vostre dichiarazioni, io sarei costretta a combatterle dal vostro singolare ardimento.

- Sciocchezze. Puerilità indegne di una bellezza divina qual sei.

- Vi scongiuro, signore, di mutar tono. Un gentiluomo deroga mancando alle convenienze.

- Ma io t’amo, Sofia. T’amo come non ho amato mai. Per un tuo solo bacio darei non una, dieci volte, la vita. Ingiuriami, calpestami, disprezzami poi, ma sii mia.

In così dire Cesare Abbo si lancia sulla signora le cinge con un braccio la vita e rovesciandole coll’altra la testa, la bacia furiosamente sulla bocca, sulla gola e tenta di usarle l’estrema violenza.

Di fronte ad un tale attacco la signora, che si vede ormai perduta, fingendo per un secondo di abbandonarsi all’assalitore, ottiene che rallenti la foga del suo amplesso, si svincola da lui e riesce ad attaccarsi al cordone di un campanello, cui dà una terribile strappata. Due servi in livrea accorrono tosto dall’anticamera.

- Allontanate questo signore e ricordatevi ch’egli non deve aver più accesso in questa casa.

I due domestici si fanno addosso a Cesare, ma questi tenta di ribellarsi loro. Ma ha da fare con due robustissimi giovanotti, i quali dopo breve colluttazione riescono a metterlo fuori.