Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXXX
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La tresca dell’olevanese colla capricciosa parigina continuò; le cambiali si moltiplicarono e le richieste di denaro alla mamma del pari. Vennero la scadenze e Pietro non potendole pagare fu costretto a rinnovarle, accumulando interessi sopra interessi. Quando la somma toccò una cifra enorme, il Giudìo pensò bene di fare gli atti al suo giovane cliente e ottenne un sequestro sui beni di sua proprietà, dei quali era usufruttuaria la madre. L’indignazione della povera donna per tale disastro fu terribile. Energica com’era, ricorse al sussidio di un esperto avvocato e colla minaccia di un processo penale per usura, riuscì a pagare i debiti di suo figlio, spogliati dagli enormi interessi che li avevano fatti crescere a dismisura. Quindi gli assegnò una pensione mensile, avvertendolo che all’infuori di quello non gli avrebbe dato un soldo di più. E quasi non bastasse chiese ed ottenne di farlo riporre sotto tutela, per modo che qualunque debito contraesse, fosse nullo. Così intendeva di assicurargli il patrimonio.
Pietro non si accasciò di soverchio per tutte queste cose. Egli si sapeva amato da Lalla, o almeno ci credeva, e questo bastava a confortarlo delle privazioni alle quali avrebbe dovuto per qualche tempo assoggettarsi. Ma dubitava che Lalla si sarebbe del pari sottoposta ad una falcidazione delle spese che gli aveva accollate.
Lieto quindi di essersi tolto dagli impicci, che lo avevano per parecchio tempo assediato, tornò a Roma, munito di un discreto gruzzolo di quattrini, strappati a sua madre col pretesto di metter casa del proprio per economizzare.
Grandi accoglienze ebbe dalla sua tenera amica, la quale coi suoi bianchi dentini da sorcetto lo aiutò a sgretolare il peculio portato da Olevano. In breve si ritrovò colle mani vuote e dopo aver esaurita la condiscendenza di qualche amico, dovette rifare la strada che menava dal vecchio giudìo. Questi non appena lo vide montò su tutte le furie possibili, Lo trattò da straccione, da ladro, da assassino. Gli disse che gli aveva usurpato il frutto de’ suoi sudori e delle sue fatiche. Inviò sopra di lui i fulmini del Dio d’Israele e lo invitò ad andarsene per la porta, prima che gli venisse meno il lume della ragione e fosse tratto a buttarlo dalla finestra.
Pietro, che ormai vi aveva fatto il callo alle scenate del giudìo, ascoltò pazientemente fino alla fine le sue contumelie e non si risolse a rispondergli che dietro l’intimazione di andarsene.
- Proprio vero che a voler trattare da galantuomo coi furfanti è tempo sprecato - esclamò movendo un passo verso l’uscio.
- Come sarebbe a dire? Chi è il furfante e chi il galantuomo? Spiegatevi - urlò il giudìo.
- Il galantuomo, a rigor di termine, sono io, il furfante lascio alla vostra persona d’indovinare chi sia.
- Bel galantuomo! Dopo essersi mangiati i frutti sacrosanti del mio denaro.
- Vi faccio osservare che io non ho mangiato niente più di quanto mi avete sborsato.
- Egli interessi? gli interessi?
- Non sono stato io che ve li ho tolti.
- E chi dunque.
- L’avvocato di mia madre.
- Un altro galantuomo come...
- Come chi?
- Come voi?
- Non siete in vena di complimenti stamattina. Eppure per mostrarvi che sono qual mi vanto, era venuto per proporvi di cautelare questi frutti, che vi furono arbitrariamente tagliati dall’avvocato.
- Portate quattrini? tirateli fuori e proclamerò che siete la perla, la fenice dei galantuomini.
- Ecco veramente i quattrini non li ho; ma...
- Se non ne avete è colpa vostra, dovevate pagare a tempo.
- Vostra. Dovevate aspettare un po’ ancora.
- Sapete che i sovventori non volevano più oltre indugiare.
- E così hanno danneggiato i loro affari e i miei. Ma siamo in tempo di riparare.
- Come.
- Vi rilascerò una cambiale per i frutti.
- Una cambiale senza la vostra firma, vale il prezzo del bollo, sottoscritta da voi non vale più neanche quello.
- Non siete molto gentile.
- Siete interdetto.
- No, interdetto, riposto sotto la tutela di mia madre.
- Se non è zuppa è pan bagnato.
- Questa tutela cesserà.
- Finché vive vostra madre ci ho dei dubbi forti.
- La mia non è una madre eterna.
- Iehowa non aveva moglie, infatti.
- Una cambiale senza scadenza fissa.
- Per potersene valere, dato che non voleste farla impugnare, bisognerebbe che fosse in bianco anche per la data d’emissione.
- La farò come vorrete.
- Meglio poco che niente.
- Mi restituite la vostra fiducia?
- Riconosco in voi delle buone disposizioni, ma quanto alla fiducia aspetteremo alla scadenza.
Il giudìo tirò fuori una cambiale e la porse a Pietro dicendogli:
- Ecco qui, mettete la somma e firmate.
- Per la somma non ci siamo ancora intesi.
- Ah! Ho capito, mi chiedete quanto dovete aggiungere per gli interessi del tempo che dovrò aspettare. Voglio mostrarmi generoso, e non vi farò pagar nulla per questo.
- Grazie. Ma non siamo ancora arrivati al busillis.
- E sarebbe?
- Mi occorre un migliaretto di scudi. Datemeli e faremo la somma rotonda.
- Siete impazzito? Mille scudi a voi? Sarebbe come buttarli dalla finestra.
- Sia per non detto. Me ne vado.
- E la cambiale?
- Se la mia firma neppure in bianco non vale mille scudi è meglio che risparmi di insozzare la cambiale.
- Eh! È questo il vostro galantomismo?
- Mi occorrono mille scudi.
Il dibattito continuò a lungo. La conclusione fu che il giudìo, tirò fuori quattrocento scudi e Pietro gli rilasciò la cambiale per mille, oltre l’importo degli antichi interessi. Disgraziatamente pareva che l’appetito di Lalla crescesse in ragione inversa dei fondi del suo amante.
Ogni giorno erano nuovi capricci de’ più costosi. In capo ad otto giorni i quattrocento scudi del giudìo erano sfumati.