Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXXII

Capitolo settantaduesimo - Incontro inaspettato

../Capitolo LXXI ../Capitolo LXXIII IncludiIntestazione 19 settembre 2008 75% romanzi

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Benché stabilito anche lui in Roma, la romantica innamorata del biondo cacciatore di Monteguidone, non l’aveva mai riveduto. E questo contribuiva alla sua tranquillità. Una mattina Geltrude se ne stava seduta nel fondo del negozio, quando la sua attenzione fu richiamata da un lontano salmodiare di voci, che si andava avvicinando e nel contempo vide la gente di fuori accalcarsi sui marciapiedi. Doveva essere un trasporto funebre di qualche importanza. Spinta dalla curiosità si affacciò anch’essa, per assistere dalla soglia della bottega allo sfilare del funebre corteggio.

- È una zitella, poveretta - diceva una donnicciuola. Vedete che ha il panno bianco, sul feretro.

- No, rispondeva un’altra.

- E chi è, dunque?

- Una signora morta di parto.

- Poverina, lascia dei figliuoli?

- No. Era il primo, dopo parecchi anni di matrimonio.

- Guarda un po’ che disgrazia.

Il convoglio intanto si avvicinava preceduto e seguito da una quantità di frati dei vari ordini e da una folla di persone per bene, munite di grossi ceri, che alternavano le preci e i canti funebri. E il chiacchierio degli spettatori e delle spettatrici continuava. Chi ne sapeva qualche cosa, lo diceva, per mostrarsi ben informato. Chi non sapeva nulla, o inventava delle fole, o chiedeva notizie ai vicini.

- Vedete - disse d’un tratto quella che pareva meglio al giorno delle cose - il marito, segue la cassa, col padre e coi fratelli.

- Qual è il marito? - si richiese d’ogni parte.

- Quello là biondo, nel mezzo, tutto vestito di nero.

- È un bel giovanotto, troverà presto da consolarsi.

- Povero sor Enrico!

All’udire questo nome Geltrude, colta da uno strano presentimento, uscì dal negozio e mischiandosi alla folla, volse lo sguardo dalla parte indicata dalla donnicciuola. Impallidì subitamente, si appoggiò alla parete, ma sarebbe indubbiamente caduta al suolo, se gli astanti non se ne fossero accorti e non l’avessero sorretta.

- Sora Geltrude vien meno, bisogna portarla nel negozio disse una bottegaia sua vicina.

- Poveretta! È tanto buona. Non ha potuto resistere all’emozione.

- Quando non si ha più coraggio di una gallina, si dovrebbe starsene a casa.

Così si diceva intorno, mentre un forte giovinotto levandosela sulle braccia la trasportava in negozio.
Lo svenimento di Geltrude portò un po’ di scompiglio nel corteggio e fu avvertito da coloro che lo formavano e segnatamente dal giovinotto biondo, che era stato designato per il vedovo marito, il quale parve assai commosso da quell’incidente e pur continuando a seguire il feretro dell’estinta, volgeva frequentemente il capo verso la bottega di Geltrude, finché gli fu dato di vederla.

- È un conforto per chi soffre, veder diviso il proprio dolore sentenziò un rigido signore, rispondendo all’osservazione di taluno, cui sembrava strano quel contegno.

Quando Toto tornò a casa, trovò la sua cara sposa adagiata sul letto, e circondata dai garzoni e dalle donne del vicinato, perché lo svenimento di Geltrude aveva quasi avuto le proporzioni di un deliquio. E le sue smanie non cessarono se non quando la vide pienamente ristabilita.
Ma convien dire che l’impressione della donna fosse stata ben terribile, perché le lasciò in fondo una tristezza, che indarno cercava di vincere.