Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXXIII
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Passò così una settimana. Sull’imbrunire di un sabato Geltrude se ne stava sulla soglia della bottega, guardando la folla della gente che andava e veniva per un verso e per l’altro, quando i suoi occhi si fissarono sopra un uomo che fermo sull’angolo della via dirimpetto guardava intensamente il suo negozio. Non tardò a riconoscere in lui, Enrico, il biondo cacciatore di Monteguidone, lo sconsolato vedovo che aveva veduto sette giorni innanzi seguire il feretro della moglie. Una subita emozione si impossessò di lei; con un breve chinar del capo, accennò affermativamente alla muta interrogazione che sembrava farle. Enrico mosse alcuni passi giù per la via, quindi tornò indietro e passando rasente il negozio di Toto, porse a Geltrude un pezzo di carta arrotolata, che teneva fra le dita, senza soffermarsi, e senza salutarla.
Geltrude, si cacciò in tasca il biglietto e rientrò prontamente in bottega: i garzoni avevano accesi i lumi ed ella potè leggerlo Diceva semplicemente: "Domenica alla 10 a San Pietro". Si alzò, fece il biglietto in piccolissimi pezzi e recatasi sul limitare del negozio, li sparse nella strada.
Aveva deciso di vincere quella tentazione, di resistere all’inclinazione che la trasportava, di rifiutare l’appuntamento e di conservarsi fedele ed intemerata moglie.
Ma le memorie del passato ripresero il sopravvento durante la notte, che scorse per lei agitatissima. Verso il mattino credette d’aver vinta la battaglia e che la palma fosse rimasta al dovere, e si addormentò, proponendosi irremissibilmente di non recarsi al convegno, di tagliare alle radici, quella passione che accennava a risorgere. Dormì fino alle otto del mattino cullata da rosei sogni di larve gentili e carezzevoli. Quando si svegliò la vittoria era rimasta in pugno ad Amore.
Toto era uscito, senza destarla, e aveva lasciato detto che sarebbe tornato soltanto a sera, perché doveva andare a Frascati per un certo suo affare.
Geltrude si vestì colla consueta eleganza, ma senza sfarzo di ninnoli e di gioie, uscì e si trovò, quasi senza saperlo, forse senza volerlo, sulla gradinata di San Pietro. Sulla porta del tempio Enrico l’attendeva. Che si dissero?
Una sola cosa. Enrico era libero di sposarla. Geltrude non era più tale. Apparteneva ad un altro uomo. Enrico l’amava sempre disperatamente, come il primo giorno che l’aveva veduta. Geltrude non lo amava meno, ma non aveva avuto il coraggio d’attendere. L’ostacolo insormontabile alla loro felicità l’aveva creato lei. Avrebbero continuato una relazione clandestina? Perché allora l’avevano interrotta, spezzata anzi violentemente a Monteguidone?
Usciti dal tempio erano saliti a Monte Mario e Roma cominciava già ad avvolgersi nei vapori del tramonto quando si decisero di scendere. Enrico accompagnò la bella, ormai decisa al peccato, fino a Ponte Sant’Angelo, e Geltrude rientrò in casa pochi minuti prima di suo marito.
- Sei uscita oggi? - le domandò.
- Ho passata la giornata a Monte Mario: avevo bisogno di prendere un po’ d’aria.
- Hai fatto bene. Ora ti senti meglio?
- Sto benissimo.
Cenarono allegramente e coricatisi presto, fu Gertrude prodiga di sé al marito più assai, e più intensamente del consueto. Ma a chi volava il suo pensiero?
Toto ne fu felice e beato. Tanto è vero che la felicità è relativa.
I convegni fra i due amanti si moltiplicarono; ma furono condotti colla massima cautela. Geltrude chiedeva spesso ad Enrico:
- Se fossi libera?
- Ti sposerei.
- Lasceresti Roma?
- Con te verrei anche in capo al mondo.