Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXXI
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Da quel dì fatale Geltrude subì una trasformazione. Alla giocondità consueta, successe in lei una malinconia dolce e soave. Amava il consorzio de’ suoi genitori come per l’addietro, ma passava delle intere giornate sola nella sua camera. Le sue assenze si facevano più frequenti e più lunghe. Ella s’era data pienamente in balìa della passione che l’aveva travolta, e i suoi amori con Enrico continuavano più ardenti che mai. Ma l’inverno si avvicinava. I convegni nella macchia diventavano impossibili, e per lo meno ingiustificabili. E già più d’una volta i due amanti favellando avevano dovuto trattare lo spinoso argomento della separazione, senza nulla concludere.
- Enrico, disse finalmente la fanciulla, al cacciatore, tu mi hai detto che non potevi pensare al matrimonio, vorresti confessarmene il perché, francamente, schiettamente? Io non ho alcun rimprovero a farti. Mi sono data a te senza patti, senza condizioni, perché così la sorte ha voluto. Parla, sono pronta a tutto.
- Perché rammaricarci?
- Parla Enrico. Ho abbastanza forza per udire la verità e coraggio per sopportarla. Forse sei...
- Lo vuoi assolutamente sapere?
- Lo voglio.
- Ebbene, sì, sono...
- Dillo.
- Sono ammogliato.
Geltrude chinò il capo sul seno e stette per alcuni istanti assorta in meditazione. Enrico non osava distoglierla. Quando ebbe a lungo riflesso e parve aver presa una determinazione; si alzò e tendendo la mano all’amante, gli disse con ferma voce:
- Tutto è finito. Enrico addio. Dimenticami, se puoi; io non ti dimenticherò mai.
Il cacciatore le strinse la mano portagli, la baciò e ribaciò, la rigò di lagrime, ma non disse verbo.
E così si lasciarono.
Tre mesi dopo gli abitanti di Monteguidone erano sorpresi da una grande notizia. Geltrude Pellegrini si faceva sposa di un ricco bottegaio romano sulla quarantina.
Le nozze si celebrarono con grande pompa e solennità. Dodici ragazze del paese, in bianchi vestiti, l’accompagnarono all’ara. Dalla casa alla chiesa fu una processione. Le finestre delle case per le quali passava il corteo erano addobbate e piovevano sovr’esso freschi fiori; le campane suonavano a festa. La gente si affollava sul passaggio. Vi fu distribuzione larga di denari e di derrate ai poveri. Nella casa del vecchio massaio ebbe luogo un sontuoso banchetto e levate le mense si ballò.
La sposa appariva palliduccia, ma pur sempre bella. Lo sposo era raggiante di felicità. E di quegli sponsali rimase la tradizione nel paese.
Compiuto il viaggio di nozze Geltrude Pellegrini e suo marito si stabilirono in Roma e la loro vita consuetudinaria incominciò e continuò tranquilla e serena. Toto era innamorato di sua moglie, e le riservatezze di questa non facevano che alimentare la sua passione, la quale si traduceva in gentilezze, cure e prodigalità infinite. Non tardarono i vagheggini a farsi intorno all’avvenentissima donna, come già si erano fatti intorno alla leggiadra fanciulla, ma inutilmente, Geltrude si mostrò insensibile a qualsiasi seduzione e seppe frenare le audacie dei più intraprendenti, senza suscitar scandali e senza compromettere il marito o le faccende del negozio, nelle quali in breve diede mostra di accorgimento e di un tatto non comune.
Così si acquistò le simpatie universali e colle simpatie il rispetto e l’ammirazione. Avevano creduto di aver a che fare con una mezza contadina e si trovavano invece innanzi una persona non solo civile, ma dal portamento e dall’educazione quasi signorile.
- Guarda un po’ com’è fortunato quel Toto - dicevano i suoi compagni - è già sulla quarantina e si è pescato un boccone da principe, onesta e virtuosa, quanto bella, ed esperta negli affari del negozio, come se ci fosse nata.
Toto gioiva de’ trionfi di sua moglie e sentiva farsi sempre maggiore l’adorazione per lei. Un solo dispiacere provava, ed era quella di non aver figli. Attribuiva ciò alla ritrosia di Geltrude, ma si confortava dicendo: "Quel che non è venuto verrà." E agli amici che per beffarlo gli domandavano se aveva bisogno d’aiuto, per assicurarsi un successore, rispondeva:
- Provatevi pure, se ci riuscite.
Tanta e tale era la fiducia che riponeva nella incontestata virtù di sua moglie.
Aveva veramente dimenticato Geltrude il suo primo ed unico amore? Si era completamente atrofizzato il suo cuore? Si era spento quell’ardore del suo sangue, che l’aveva tratta a darsi così completamente ad Enrico?
Lo vedremo.