Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXIII
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Il famiglio e il macellaro s’erano accantucciati innanzi ad un tavolino e andavano vuotando un boccale di frascatano, che avrebbe dovuto scioglier loro la lingua. Ma né l’uno né l’altro osavano entrare nell’argomento: questi desiderava e nel tempo stesso temeva di conoscerne la verità: quegli aveva paura che Beppe montasse un’altra volta in furia.
- Siamo qui da un quarto d’ora, disse finalmente il Macchia con voce sommessa e appena intelligibile, e ancora non abbiamo abbordato l’affare. Vi piacerebbe spiegarmi...
- Di gran cuore, se promettete d’essere uomo e di non abbandonarvi agli impeti del vostro carattere.
- Sta tranquillo, amico. Ormai sono preparato a tutto. Mi rendi un servizio e non sono uomo di mancar di riconoscenza. Mia moglie dunque...
- Vi tradisce.
- Ne sei certo, perché bada, non vorrei...
- Ne sono certo, come d’aver ricevuto il santo battesimo. L’ho veduta coi miei occhi.
- Svergognata! Dove!
- In scuderia. Nel camerino del cocchiere.
- Non è dunque il principe?
- Ma che principe! È innamorata morta del cocchiere.
- Baldracca!
- Ogni sera all’ora della tavola della servitù, abbandona il bambino nella sua culla, certa che nessuno l’andrà a cercare, scende al buio, giunge nella scuderia, dove l’amante l’aspetta.
- E vi si trattiene?
- Mezz’ora o tre quarti al più.
- Come lo sapesti?
- Il cocchiere mi licenziò per quell’ora: io risposi che ci avevo qualche affare a spicciare ed egli mi disse: "Se ti vedo in scuderia a quell’ora ti mando all’inferno." Io non me lo feci ripetere. Ma volendo sapere che cosa succedeva, mi nascosi una sera nella mangiatoia di due cavalli che ora sono stati mandati in campagna e vidi tutto. Allora ho pensato di avvertirvi.
- Ed hai fatto bene perdio! Beviamone un altro boccale. Il boccale fu ordinato e mentre passava dal recipiente negli esofaghi dei due nuovi amici, Beppe prese a dire:
- I servizi non si vendono a metà.
- Son qui tutto per voi, purché non mi compromettiate.
- Non aver paura.
- Che volete da me?
- Voglio che tu mi introduca nella scuderia, senza che altri mi veda; occuperò il posto d’osservazione che ha servito a te. Voglio vedere co’ miei occhi.
- Non le farete mica del male a Rosa?
- Manco per sogno. Voglio soltanto confonderla. Poi la manderò al diavolo.
- Così sia. Venite sull’imbrunire. Il portone è aperto, a quell’ora il guardiaporta se ne sta a far quattro chiacchiere cogli amici. Entrate franco e venite alla scuderia, ch’è nella seconda corte a destra. Io ci sarò.
Poco dopo famiglio e macellaro si lasciarono. Il primo rientrò a palazzo, ben felice di aver trovato modo di vendicarsi del cocchiere, col quale l’aveva a morte; il secondo tornò a bottega e prese tutte le disposizioni per ciò che intendeva fare. All’ora convenuta il Macchia si presentava alla scuderia, dove il garzone l’attendeva: questi fu un po’ sorpreso di vederlo munito di quel palo, col quale lo aveva minacciato il mattino, ma Beppe lo rassicurò dicendogli, che soleva sempre portarlo con sé la notte, essendo minacciato da molti nemici. Il famiglio gli additò la greppia in cui doveva nascondersi, gli raccomandò la massima prudenza, e se ne andò per tema di venir sorpreso. Si diedero convegno per la sera stessa all’osteria di Zi’ Pippo.
Non appena uscito il garzone, Macchia si accovacciò nella mangiatoia e attese. La scuderia era illuminata da una lampada appesa alla volta nel mezzo, munita di un grande cappello a riverbero, che spandeva la luce nella parte dove stavano i cavalli. Il posto dove stava appiattato il macellaro era immerso nell’oscurità più profonda. Macchia non aspettò di molto. La porta si aperse pian piano e il cocchiere entrò munito di una di quelle piccole lanterne ad occhio di bue che spandono un fascio di raggio innanzi a sé, lasciando nell’ombra la porta. Diede un’occhiata ai cavalli, quindi salì i pochi gradini che menavano al camerino di guardia e vi penetrò lasciando la porta socchiusa. Passarono cinque minuti, che al marito oltraggiato parvero cinque secoli, si udì un lieve scricchiolìo alla porta e comparve Rosa nel suo provocante costume, più scollato del consueto. Non appena ebbe posto piede sul primo gradino, l’uscio del camerino s’aprì e la formosissima donna fu investita tutta quanta dalla luce dell’occhio di bue. Impossibilitato a frenarsi più oltre Giuseppe Macchia balzò fuori dal suo nascondiglio armato del suo palo e menò un colpo terribile al capo della balia. Rosa cadde mandando un acutissimo grido e più non si mosse. Intanto il tradito si lanciava nel camerino del cocchiere, ma questi si era buttato giù dalla finestra, verso la corte, alta pochi metri dal suolo. Il grido richiamò alla scuderia i domestici, il portiere ed altre persone di servizio, che trovarono la balia col capo fracassato e morente. Altri frattanto arrestavano il macellaro, che seguendo l’esempio del cocchiere era saltato dalla finestra nella corte. Inutile descrivere lo scompiglio che seguì nel palazzo. Giuseppe Macchia fu consegnato alle guardie accorse e portato in carcere, Rosa venne trasportata alla camera mortuaria della vicina chiesa dopo che il medico ebbe constatato il suo decesso.
Nel suo interrogatorio innanzi ai giudici il macellaro confessò il delitto, ne disse il movente, senza declinare il nome del famiglio che lo aveva edotto di tutto. Ma questo fu tosto indovinato, sapendosi da tutti l’inimicizia che esisteva fra lui e il cocchiere. Condannato alla decapitazione, Giuseppe Macchia domandò egli stesso i conforti religiosi e subì la pena con coraggio, ma senza ostentazione di baldanza.