Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXIV
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L’uxoricidio del quale ho testé discorso me ne chiama alla mente un altro, accaduto a Tolentino, alcuni anni dopo, del quale la memoria mi soccorre gli interessantissimi particolari. Giuseppe Valeri, merciaio ambulante, aveva condotto in moglie una appetitosa forosetta dalle forme scultorie e dal viso capriccioso e furbo, dallo sguardo incandescente, la quale prima di impalmarsi al merciaio aveva commesse parecchie scarpette che avevano aumentato il contingente dei ricoverati al brefotrofio del suo paese.
Brutto come il peccato, secco, allampanato, con delle braccia e delle gambe lunghe, che quando s’aprivano parevano ali d’un molino a vento, più vicino ai quaranta che ai trentacinque, spilorcio, avido di denaro, taccagno, mal vestito e peggio costrutto, Domenico non poteva certo aspirare a nozze cospicue. Ma anche la venustà della fanciulla sulla quale aveva posti gli sguardi era una pretesa al disopra dei suoi meriti. Doveva dunque essere, necessariamente, molto corrivo per quanto concerneva il di lei passato e proporsi di chiudere un occhio anco per l’avvenire. Ed è precisamente quello che egli aveva fatto. Le sue frequenti assenze dal paese erano una fortuna, sulla quale Michelina, sposandolo, aveva fatto assegnamento.
I primi tempi del matrimonio passarono per entrambi tranquilli. La moglie vinceva coraggiosamente la ripugnanza che la bruttezza del marito le ispirava, e questi, per ripagarla dei godimenti che ne traeva, oltre al mostrarsi molto indulgente con lei, largheggiava nelle spese. Michelina approfittava generosamente d’una cosa e dell’altra. Si trattava con lautezza, per quanto concerne il vitto, vestiva con relativo lusso, non faceva mai nulla di nulla, e si era procurata una folla di cugini, che le allietavano gli ozi. In breve Domenico si ebbe conquistata la fama d’essere il più grande, fortunato e contento marito cornuto dell’umanità.
Ma l’appetito vien mangiando, come si suol dire, e presto il trattamento del marito parve a Michelina troppo scarso. Pensò che gli amanti di cuore se le fruttavano molte gioie fisiche, non gliene procuravano punto di morali, e cominciò a trar profitto della sua libera vita. Una sera, ritornando prematuramente a casa da uno de’ suoi consueti viaggi, trovò Domenico la sua diletta sposa a cena con un grasso e grosso curato. La tavola era fornita d’ogni ben di Dio. Bottiglie coperte dall’onoranda polvere del tempo, fiaschi dalla pancia tumefatta contenente topazi e rubini sciolti; un magnifico cappone fumante sulla scansia ed altri bipedi alati ed implumi, sulla credenza. I più deliziosi aromi impregnavano l’ambiente e vellicavano le nari del reduce merciaio, anco più deliziosamente di quelle dei due convivi.
All’improvvisa comparsa di Domenico Valeri, il curato fece atto di alzarsi e le sue gote già rubizze, diventarono color di fiamma, ma Michelina lo trattenne con un delizioso moto della bianca manina ed un quasi impercettibile alzar di spalle.
- Buon Menico, - disse poi - Sei tornato a tempo, il signor curato sarà ben felice di averti per commensale.
- Certamente! Certamente! - borbottò il prete, benché temesse di non trovarsi completamente a suo agio.
- Vieni qui - ripigliò Michelina - un’ala di questo cappone ti rifocillerà lo stomaco e ti preparerà a mangiare il resto di buon appetito.
- Permette proprio, signor Curato? - domandò Domenico, con emozione, e prendendo la mano del reverendo e baciandola con gran rispetto.
- Figuratevi.
Man mano che la cena procedeva il curato smetteva il broncio e vista la compiacenza del marito, lo affogava di bere e mangiare. E intanto andava mulinando come avrebbe potuto liberarsi da quell’impiccio, rompendo il programma della sua serata. Michelina aveva messe lenzuola di bucato, acutamente profumate colla spazzetta, nel talamo nuziale, aveva mutate le fodere de’ guanciali e sarebbe stata una così bella occasione di passare una gioconda nottata.
Il prete interrogava la capricciosa moglie del merciaio sul delicato argomento, cogli occhi e coi piedi. Questa comprese a volo e rispose con un sorrisetto pieno di malizia. Ma Domenico Valeri non era un grullo. Da quella cena comprese tutto ciò che poteva sperare per l’avvenire, mostrandosi condiscendente e indovinando i desideri e le intenzioni del curato, uscì fuori con una esclamazione che scese fin nei più nascosti recessi dell’anima del prete:
- Che peccato che io non possa trattenermi più a lungo in sì grata compagnia.
- Perché? - domandò prestamente il degno ecclesiastico.
- Bisogna che riparta subito. Ho un contratto da stipulare e non sono venuto che per prendere certi denari dei quali ho bisogno.
- Partirai domattina - disse la pudibonda sposa - se te ne vai così, il signor curato se n’avrà a male.
- Certamente! - biascicò il prete.
- Il signor curato è tanto buono che vorrà perdonarmi. Gli affari prima di tutto, non è vero?
- Sicuro - scappò detto all’anfitrione in sottana nera.
- Almeno trattienti un’altro pochetto, tanto da accompagnare a casa don Gaspare - miagolò Michelina, che si divertiva a tener sulle spine il prete.
- Oh! per questo non c’è bisogno, ribattè costui.
- Dunque me ne vado.
E vuotato un ultimo calice d’aleatico, Domenico si alzò, finse di andar a prender qualche cosa nel canterano e rimessosi sulle spalle il ferraiolo, se ne andò accompagnato dagli auguri e dalle raccomandazioni della moglie.