Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXII
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Quattro mesi e dieci giorni dopo, cioè il 16 settembre, eseguii un’altra decapitazione a Piazza del Popolo in persona di Giuseppe, quondam Biagio Macchia, un macellaro che aveva mazzolato la moglie. Dico mazzolato, perché veramente il mezzo adoperato da lui per ucciderla, somigliava precisamente alla mazzolatura. Su questo proposito posso dare il mio parere con una certa competenza.
Aveva il Macchia sposata una loretana formosissima che attraeva a sé, per la rotondità pastosa delle sue forme, l’attenzione di tutti i giovani de’ Monti, ove egli teneva bottega. Ma nessuno aveva potuto ottener nulla da lei e la sua riputazione d’onesta donna s’era solidamente stabilita. Ingravidata quasi subito dopo le nozze, partorì in capo a dieci mesi una femminuccia, la quale morì quasi subito. La mammana le propose allora di entrare a far da balia in una casa principesca, profferendole emolumenti lautissimi. Rosa, la macellara, ne parlò al marito. Questi sulle prime esitò, ma poi si lasciò vincere dalla seduzione del denaro. Gli affari di bottega non gli andavano troppo bene: aveva dei debiti, i cui interessi gli assorbivano la maggior parte de’ guadagni. La prospettiva di poterli pagare e d’essere così liberato da quell’onere lo indusse al sacrificio e lasciò che la moglie entrasse nella casa del principe, per dare il latte al piccolo principino. Rosa fu tosto vestita sfarzosamente nel costume del paese. Le fecero un magnifico guarnello di casimiro celeste, con una larga banda di raso giallo oro al basso, breve per modo da lasciar scoperto, fin oltre la caviglia, il piede calzato con scarpine scollate, di copale, guarnite con un fiocco di seta dello stesso colore della banda; un busto di seta celeste, come la veste, colla fettuccia e gli ornamenti di seta gialla; la camiciuola a larghe maniche sbuffate di casimiro bianco e uno scialletto di crespo indiano pur giallo, che gettava degli sprazzi di luce aurata sul collo bianchissimo e molto scoperto di dietro e davanti; le adornarono la testa leggiadra di una larga fettuccia intrecciata di seta celeste, con frangie d’oro, trattenuta da un grosso spillone di filigrana pur d’oro.
Vedendola in quella toletta per la prima volta il povero Macchia fu preso da un capogiro: mai gli era apparsa tanto bella la sua sposa e mai aveva desiderato più ardentemente di possederla. Ma questo gli era impossibile, perché era stabilito per patti, che Rosa non avrebbe mai lasciato il palazzo principesco, durante l’allattamento. Giuseppe non poteva parlare con sua moglie che in presenza della cameriera e della governante.
Il macellaro se ne struggeva. E quasi non gli bastasse l’interno cruccio si aggiungevano i motteggi degli amici e dei conoscenti, i quali si vendicavano dell’austerità di Rosa, verso di loro, suscitando le gelosie del marito.
- Eh! Beppe da quanto tempo non abbracci tua moglie? gli diceva uno.
Un altro: - Te la lasciano almeno vedere?
Un terzo: - Forse prende il latte anche il principe? Dicono che le è sempre attorno. Dopo tutto non ha torto. Era il più bel pezzo di carne che avevi in negozio. Macchia si schermiva alla meglio, ma nel suo interno fremeva e malediva l’ora e il momento in cui si era lasciato vincere dalla gola del denaro.
Finalmente prese il suo partito. Andò da Rosa e le spiattellò chiaro e tondo che intendeva tornasse a casa ed a bottega.
- Sei matto? - fu la risposta di Rosa.
- Matto, o non matto, voglio così. Svestiti ed andiamo.
Ne nacque una disputa gravissima. Ma il Macchia aveva dato il suo consenso per il baliatico, Rosa si diceva contentissima di rimanere in casa del principe e il macellaro fu cacciato dal palazzo, dai servitori. Macchia ricorse a monsignor Fiscale, e monsignor Fiscale lo minacciò di metterlo in carcere, se si fosse recato ancora a disturbar sua moglie. Per forza o per amore a Beppe convenne di starsene zitto, mordendo la catena ch’egli stesso si era fabbricata, accordando il consenso. Ma continuava a mulinare progetti di vendetta. L’aveva con tutto il mondo, colla moglie, col principe, coi domestici, col Fiscale, e credo pure col Papa. Un giorno stava chiudendo la bottega, quando gli si presentò un giovane imberbe, che aveva tutta l’aria di un famiglio di casa signorile.
- Sor Beppe? - chiese costui timidamente.
- Sono io. Che volete?
- Sono un uomo di scuderia del principe, in casa del quale vostra moglie fa da balia.
- Ah! sì. Aspetta che t’acconcio io - urlò il macellaro - e corse in un canto per prendere il palo, con cui soleva sbarrare la porta posteriore del negozio.
- Che fate? - domandò sbigottito il famiglio.
- Niente, ti voglio soltanto accarezzare le spalle. E così potessi fare altrettanto col tuo padrone.
- Fareste meglio ad accarezzare quelle di chi vi fa cornuto, strillò il giovane, balzando fuori dal negozio con un salto e soffermandosi in mezzo alla via.
Il Macchia era diventato livido: il suo fegato secerneva tanta bile, che pareva volesse soffocarlo. Tuttavia riuscì a dominarsi: depose il palo e chiamò il famiglio così:
- Eh! giovinotto scusatemi un po’. Mi fanno e mi son lasciato trasportare. Ora chiudo, se volete andremo a farcene una foglietta, qui da Zi’ Pippo.
- Meno male! Siete diventato ragionevole. Vengo per rendervi un servigio, e un poco ancora mi accoppate.
- Non lo sai che un uomo in furia diventa una bestia?
- Me ne sono accorto.
Giuseppe Macchia chiavò per bene la porta del negozio e infilato il suo sotto il braccio del famiglio, lo trascinò da Zi’ Pippo.