Marocco/Sidi-Hassem
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Beni-Hassen | Zeguta | ► |
SIDI-HASSEM
La provincia dove stava per entrare la carovana, era una specie di colonia, divisa in poderi fra un gran numero di famiglie di soldati, in ognuna delle quali il servizio militare è obbligatorio per tutti i figli maschi; anzi ogni figliuolo nasce, per così dire, soldato, serve, come può, fin dall’infanzia, e riceve una paga fissa prima di essere in grado di maneggiare il fucile. Di più queste famiglie militari vanno esenti dalle imposte, e la loro proprietà è inalienabile fin che esiste la progenitura mascolina. Costituiscono perciò una milizia regolare, disciplinata e fedele, colla quale il governo può tranquillamente divorare, giusta l’espressione del paese, una qualunque provincia ribelle senza temere che gli ciurli nel manico; e si potrebbe dire una milizia d’esattori, che rende al governo assai più di quello che gli costa, poichè nel Marocco l’esercito serve specialmente alle finanze, e l’ordigno principale della macchina amministrativa è la spada.
Appena oltrepassato il confine dei Beni-Hassen, si vide lontano uno stormo di cavalieri che venivano di galoppo verso di noi, preceduti da una bandiera verde.
Cosa insolita, erano schierati in due lunghissime linee, l’una dietro l’altra, cogli uffiziali dinanzi.
A venti passi da noi, si arrestarono bruscamente tutti in un punto.
Il loro comandante, un grosso vecchio dalla barba bianca, d’aspetto benevolo, con un turbante altissimo, porse la mano all’ambasciatore dicendo: — Siate il benvenuto! Siate il benvenuto! — e quindi a noi: — Benvenuti! Benvenuti! Benvenuti!
Ci rimettemmo in cammino.
I nuovi cavalieri erano molto diversi dai Beni-Hassen. Avevano i vestiti più puliti e le armi più lucide; quasi tutti gli stivali gialli, ricamati di filo rosso; le sciabole col manico di corno di rinoceronte, le cappe turchine, i caffettani bianchi, le cinture verdi. Molti eran vecchi, ma di quei vecchi pietrificati, per i quali pare che sia cominciata l’eternità; parecchi giovanissimi; due, fra gli altri, non più che decenni, belli, pieni di vita, che ci guardavano con un’aria sorridente come per dire: — Via, non siete poi quelle faccie patibolari che c’eravamo figurate! — V’era un vecchio nero di tale statura, che, stendendo le gambe fuori dalle staffe, avrebbe quasi toccato terra coi piedi. Uno degli uffiziali aveva le calze.
Dopo mezz’ora di cammino, incontrammo un altro drappello, colla bandiera rossa, comandato pure da un vecchio caid, che s’unì al primo; e via via, andando innanzi, altri gruppi di quattro, otto, quindici cavalieri, ognuno colla bandiera, che vennero tutti a ingrossare la scorta.
Quando la scorta fu completa, cominciarono le solite cariche.
Si vedeva ch’eran soldati regolari: si raggruppavano e si scioglievano con più ordine di tutti quelli che avevamo visti fino allora. Facevano un nuovo gioco. Uno si slanciava innanzi a briglia sciolta; un altro dietro subito ventre a terra. A un tratto il primo si rizzava sulle staffe, si voltava indietro con tutto il busto e sparava il fucile nel petto a quello che l’inseguiva, il quale, nello stesso punto, scaricava una fucilata a lui contro il fianco, in modo che se si fossero tirati a palla, sarebbero tutti e due precipitati di sella morti nello stesso momento. A uno, andando di carriera, il cavallo gli cadde sotto, e lo sbalzò al di sopra della sua testa ad una tale distanza, che per un momento credemmo che si fosse ammazzato. Quello invece, in un batter d’occhio, risaltò in sella e tornò alla carica più indiavolato di prima. Ognuno lanciava il suo grido. — Guardatevi! Guardatevi! — Siate tutti testimoni! — Son io! — Ecco la morte! — Meschino me! (uno a cui era mancato il colpo) — Largo al barbiere! — (Era il barbiere dei soldati) — E un altro gettò questo curioso grido: — Alla mia dipinta! — che fece ridere tutti i suoi compagni. Gl’interpreti ci spiegarono che voleva dire: alla mia amante che è bella come se fosse dipinta; cosa strana per gente che non solo ha in orrore la pittura di figura, ma non ne ha neppure un’idea chiara. I due ragazzi fecero una carica insieme gridando: — Largo ai fratelli! — e spararono in terra curvando la testa fin quasi a toccare la sella.
Così arrivammo in vicinanza della cuba di Sidi-Hassem, dove si doveva piantare il campo.
Povero Hamed-Ben Kasen Buhamei! Finora io non ne ho parlato che di volo; ma ricordandomi che quella mattina lo vidi, lui generale dell’esercito dei Sceriffi, aiutare i servi a piantare i piuoli della tenda dell’Ambasciatore, sento il bisogno di esprimergli la mia ammirazione e la mia gratitudine. Che buona pasta di generale! Dal giorno della partenza egli non aveva ancor fatto bastonare nè un soldato nè un servo; non s’era mai mostrato un minuto di cattivo umore; era sempre stato il primo ad uscir dalla tenda e l’ultimo a andar a dormire; non aveva mai lasciato trapelare, nemmeno agli occhi più indagatori, che il suo stipendio di quaranta lire il mese gli paresse un po’ scarso; non aveva ombra d’albagia; ci aiutava a montare a cavallo, s’assicurava che le nostre selle fossero salde, dava una legnata, passando, alle nostre mule restie; era sempre pronto a tutto e per tutti; si riposava, accovacciato come un umile mulattiere, accanto alle nostre tende; ci sorrideva ogni volta che ci vedeva sorridere; ci offriva del cuscussù; balzava in piedi, a un cenno dell’ambasciatore, come un fantoccio a molla; faceva la sua preghiera, da buon mussulmano, cinque volte il giorno; contava le uova della muna, presiedeva allo sgozzamento dei montoni, guardava l’album dei pittori senza dar segno di scandalo; infine era l’uomo più ad hoc, io credo, che sua Maestà Imperiale potesse scegliere per quella missione in mezzo alla folla dei suoi scalzi generali. Hamed Ben-Kasen rammentava sovente, con alterezza, che suo padre era stato generale nella guerra contro la Spagna, e parlava qualche volta dei propri figli, che stavano colla madre a Mechinez, sua città natale. — Son tre mesi, — disse un giorno sospirando, — che non li vedo! — Forse voleva dire: — che non la vedo; — ma disse li per pudore.
Quel giorno, dopo aver assistito alla presentazione della muna, fra cui v’era un piatto spropositato di cuscussù, portato a stento da cinque arabi, ci rifugiammo, come sempre, sotto la tenda, a godervi i soliti quaranta gradi centigradi che duravano fino alle quattro dopo mezzogiorno; nel qual tempo l’accampamento rimaneva immerso in un profondo silenzio. Alle quattro, la vita si ridestava. I pittori mettevano mano ai pennelli, il medico riceveva i malati, uno andava a bagnarsi, un altro a tirare al bersaglio, chi a caccia, chi a passeggio, chi a visitare un amico sotto la tenda, chi ad assistere alle cariche della scorta, chi a vedere il cuoco alle prese coll’Affrica, chi a visitare i duar vicini, e così ognuno, a tavola, aveva qualcosa da raccontare, e la conversazione scoppiettava come un fuoco d’artifizio.
Quella sera, al tramonto del sole, andai col comandante a vedere i soldati della scorta che facevano le cariche in un vasto prato vicino all’accampamento.
C’era un centinaio d’arabi, seduti in una sola fila sulla sponda d’un fosso, che guardavano.
Appena ci videro, prima alcuni, poi cinquanta, poi tutti, si levarono da sedere e a poco a poco si vennero ad affollare dietro di noi.
Noi fingemmo di non vederli.
Per qualche momento, nessuno fiatò; poi cominciò uno a dir un non so cosa, che li fece ridere tutti. Dopo quello, parlò un altro, e poi un terzo, e via via, e ad ogni parola, tutti ridevano. Evidentemente ridevano di noi, e non tardammo ad accorgerci che le osservazioni e le risate corrispondevano per l’appunto ai nostri movimenti e a certe inflessioni della nostra voce. La cosa era naturalissima: ci trovavano ridicoli. Ma che cosa dicevano? Questa era la nostra grande curiosità. Passò in quel momento il signor Morteo, lo chiamai con un cenno furtivo, e lo pregai di star coll’orecchio teso, senza farsi scorgere, e di tradurmi letteralmente le canzonature di que’ furfanti. Mi servì a meraviglia.
Uno fece subito un’osservazione che, al solito, provocò una risata.
— Dice — tradusse il Morteo — che non sa capire a che cosa serva la falda di dietro del nostro vestito, a meno che non sia fatta per nascondere la coda....
Un momento dopo, un’altra osservazione, un’altra risata.
— Dice che la divisa dei capelli che lei ha sulla nuca è la strada dove i pidocchi fanno il lab el barod.
Una terza osservazione, un terzo scoppio di risa.
— Dice che son curiosi questi cristiani, che per l’ambizione di parere alti di statura, si mettono un vaso sulla testa e due puntelli sotto le calcagna....
In quel punto un cane dell’accampamento venne a accovacciarsi ai nostri piedi.
Una quarta osservazione, e questa volta una risata sgangherata.
— Questa è forte! — disse il Morteo. — Dice che questo cane è venuto ad accovacciarsi vicino agli altri cani.... Ora li accomodo io.
Così dicendo, si voltò indietro bruscamente e disse qualche parola araba in tuono di minaccia.
Fu un colpo di fulmine. In un momento non se ne vide più uno.
Ma, povera gente, siamo giusti! Lasciando da parte le cariche dei pidocchi e la fratellanza coi cani, non avevan ragione di pensare di noi quello che pensavamo noi stessi, paragonandoci con loro? Dieci volte il giorno, mentre ci scorazzavano intorno quei superbi cavalieri, ci dicevamo gli uni agli altri: — Sì, siamo civili, siamo i rappresentanti d’una grande nazione, abbiamo più scienza nella testa, noi dieci, che non ce ne sia in tutto l’Impero dei Sceriffi; ma piantati su queste mule, vestiti di questi panni, con questi colori, con questi cappelli, in mezzo a loro, per dio, siamo brutti! Ah! quant’era vero! L’ultimo di quegli straccioni a cavallo era più gentile, più maestoso, più degno dello sguardo d’una donna, che tutti, messi in un fascio, i bellimbusti d’Europa.
A tavola, quella sera, ci fu un’altra scenetta curiosa.
Vennero a visitare l’Ambasciatore e sedettero accanto a lui, i due più vecchi Caid della scorta.
L’Ambasciatore domandò loro: — Avete mai inteso nominare l’Italia?
Tutti e due insieme, accennando vivamente di no colla mano, risposero col tuono di chi si affretta a dissipare un sospetto: — Mai! mai!
Allora l’Ambasciatore, colla pazienza d’un maestro, diede loro alcune nozioni geografiche e politiche intorno al nostro misterioso paese.
Stettero a sentire cogli occhi spalancati e la bocca aperta come due bambini.
— E quanta popolazione ha il vostro paese? domandò uno.
— Venticinque milioni, — rispose l’Ambasciatore.
Fecero un atto di meraviglia.
— E il Marocco, — domandò l’altro — quanti milioni ha?
— Quattro, — rispose l’Ambasciatore per tastare il terreno.
— Quattro soltanto! — esclamarono ingenuamente, guardandosi.
Quei due bravi generali non sapevano del Marocco più che dell’Italia, e forse neanche più della loro provincia che del Marocco. Ma prima d’andarsene, ne dissero un’altra assai più comica.
Il signor Morteo mostrò loro una fotografia della sua signora, dicendo: — Vi presento mia moglie.
La guardarono e la riguardarono con compiacenza e poi domandarono tutti e due ad una voce: — E le altre?
O non sapevano, o piuttosto non si rammentavano in quel momento che i Cristiani, — infelici, — non possono averne che una.
Quella notte non ci fu verso di dormire. Chiocciavano le galline, latravano i cani, belavano i montoni, nitrivano i cavalli, cantavano le sentinelle, tintinnavano le campanelle dei venditori d’acqua, disputavano i soldati sulla ripartizione della muna, incespicavano i servi nelle cordicelle della tenda: l’accampamento pareva un mercato. Ma non v’erano più che quattro giorni di viaggio e noi avevamo una parola magica che ci consolava di tutto: — Fez!