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la mia gratitudine. Che buona pasta di generale! Dal giorno della partenza egli non aveva ancor fatto bastonare nè un soldato nè un servo; non s’era mai mostrato un minuto di cattivo umore; era sempre stato il primo ad uscir dalla tenda e l’ultimo a andar a dormire; non aveva mai lasciato trapelare, nemmeno agli occhi più indagatori, che il suo stipendio di quaranta lire il mese gli paresse un po’ scarso; non aveva ombra d’albagia; ci aiutava a montare a cavallo, s’assicurava che le nostre selle fossero salde, dava una legnata, passando, alle nostre mule restie; era sempre pronto a tutto e per tutti; si riposava, accovacciato come un umile mulattiere, accanto alle nostre tende; ci sorrideva ogni volta che ci vedeva sorridere; ci offriva del cuscussù; balzava in piedi, a un cenno dell’ambasciatore, come un fantoccio a molla; faceva la sua preghiera, da buon mussulmano, cinque volte il giorno; contava le uova della muna, presiedeva allo sgozzamento dei montoni, guardava l’album dei pittori senza dar segno di scandalo; infine era l’uomo più ad hoc, io credo, che sua Maestà Imperiale potesse scegliere per quella missione in mezzo alla folla dei suoi scalzi generali. Hamed Ben-Kasen rammentava sovente, con alterezza, che suo padre era stato generale nella guerra contro la Spagna, e parlava qual-