Marocco/Ben-Auda
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BEN-AUDA
La mattina seguente, al levar del sole, guadammo il fiume Kus, sulla destra del quale è posta la città d’Alkazar, e ci avanzammo di nuovo per una campagna fiorita, ondulata, solitaria, di cui non si vedevano i confini. La scorta s’era sparpagliata sopra un vasto spazio, in un gran numero di drappelli, che parevano altrettanti piccoli cortei di sultani. I pittori galoppavano di qua e di là coll’album e la matita in mano, a schizzar cavalli e cavalieri. Gli altri dell’ambasciata parlavano dell’invasione dei Goti, di commercio, di scorpioni, di filosofia, ascoltati avidamente dal gruppo dei servi a cavallo che ci venivano dietro. Civo prestava una particolare attenzione ai discorsi di filosofia. Hamed, invece, era tutto attento al signor Pacxot, suo padrone, che raccontava una caccia al cinghiale nella quale egli aveva rischiato la vita. Questo Hamed era, dopo Selam, il personaggio più notevole di tutta la categoria dei soldati, servi e palafrenieri. Era un arabo sui trent’anni, altissimo di statura, bruno, muscoloso, forte come un toro; ed aveva per contro un viso sbarbato, due occhi dolcissimi, un sorriso, una vocina, una grazia in tutti i movimenti, che facevano col suo corpo possente un contrasto singolarissimo. Portava un gran turbante bianco, una giacchettina azzurra e i calzoni alla zuava; parlava spagnuolo, sapeva far di tutto, piaceva a tutti, a segno che Selam, persino il glorioso Selam, n’era un tantino geloso. Gli altri pure, chi più chi meno, eran giovani belli, svegli e pieni di ossequiosa sollecitudine; tanto che quando un di noi, strada facendo, si voltava indietro, incontrava sempre tutti i loro occhioni che gli domandavano se gli occorresse qualcosa. — Peccato, — dicevo tra me, — che non ci assalti una banda di ladri, per poter vedere tutti questi lestofanti alla prova!
Dopo due ore di cammino cominciammo a incontrar qualcheduno. Il primo fu un nero a cavallo, il quale teneva in mano quel piccolo bastone segnato d’iscrizioni arabe, chiamato nella lingua del paese herrez, che i religiosi danno ai viaggiatori per preservarli dai ladri e dalle malattie. Poi alcune vecchie cenciose, che portavano sulle spalle grossi fastelli di legna. Oh potenza del fanatismo! Curve com’erano, stanche, sfiatate, ebbero ancora la forza, passandoci accanto, di scagliarci una maledizione. Una mormorò: — Dio maledica quest’infedeli! — L’altra disse: — Dio ci salvi dagli spiriti maligni! — Dopo un’altr’ora di solitudine incontrammo un corriere a piedi; un povero arabo macilento, che portava le lettere in una borsa di cuoio, appesa a tracolla. Giunto davanti a noi si fermò per dire che veniva da Fez e che andava a Tangeri. L’Ambasciatore gli diede una lettera per Tangeri ed egli riprese il suo cammino a passo frettoloso.
Questo, e non altro, è il servizio postale del Marocco, e nessuna vita è più miserabile di quella che menano quei corrieri. Non mangiano, strada facendo, che un po’ di pane e qualche fico; non si fermano che poche ore della notte per dormire, con una corda legata al piede, alla quale appiccan fuoco prima di addormentarsi, per essere svegliati presto; camminano giorni interi senza trovare nè un albero, nè una goccia d’acqua; attraversano boschi infestati dai cignali, superano monti inaccessibili ai muli, passano i fiumi a nuoto, vanno di passo, di corsa, ruzzoloni giù per le chine, a quattro gambe su per le rupi, sotto il sole d’agosto, sotto le piogge interminabili dell’autunno, contro il vento infocato del deserto, in quattro giorni da Tangeri a Fez, in una settimana da Tangeri a Marocco, da una estremità all’altra dell’Impero, soli, scalzi, seminudi, e quando sono arrivati... ripartono! E fanno questo viaggio per poche lire!
A mezza strada, circa, tra la città d’Alkazar e il luogo dov’eravamo diretti, il terreno cominciava a sollevarsi, e a poco a poco, quasi senza accorgercene, giungemmo sopra un’altura, di là dalla quale si stendeva un’altra pianura immensa coperta per vastissimi spazi di fiori gialli, rossi e bianchi che presentavano l’apparenza di grandi strati di neve rigati di porpora e d’oro.
Per quella pianura ci venivano incontro di galoppo duecento cavalieri coi fucili ritti sulle selle, preceduti da una figura tutta bianca, che Mohammed Ducali riconobbe ed annunziò ad alta voce: — Il governatore Ben-Auda!
Eravamo arrivati al confine della provincia dei Seffiàn, chiamata pure Ben Auda, dal nome di famiglia del suo governatore, che significa figlio della cavalla; il nome che m’aveva fatto tanto fantasticare prima di partire da Tangeri.
Discendemmo nella pianura; i duecento cavalieri dei Seffiàn si schierarono sopra una sola linea, accanto ai trecento di Laracce, e il governatore Ben-Auda si presentò all’Ambasciatore.
Se vivessi cent’anni, non dimenticherei quella faccia. Era un vecchio secco, coll’occhio truce, col naso forcuto, con una bocca senza labbra, tagliata in forma d’un semicircolo rivolto in giù. La prepotenza, la superstizione, Venere, il kif, l’ozio e la sazietà d’ogni cosa, gli erano scritti sul viso. Un grosso turbante gli copriva la fronte e le orecchie. Un pugnale ricurvo gli pendeva al fianco.
L’Ambasciatore congedò il comandante della scorta di Laracce, che s’allontanò subito di galoppo coi suoi cavalieri; e ci rimettemmo in cammino colla scorta nuova, che cominciò immediatamente le cariche e i fuochi.
Erano faccie più nere, vestiti più variopinti, cavalli più belli, grida più strane, cariche più selvaggiamente impetuose di quelle che avevamo visto fino allora. Più andavamo innanzi, e più ogni cosa pigliava colore e contorno schiettamente marocchino.
Fra quella moltitudine ci diedero nell’occhio alla prima dodici cavalieri vestiti con eleganza principesca e montati su cavalli bellissimi, che gli stessi arabi della scorta guardavano con ammirazione. Cinque di questi eran giovanotti di forme colossali che parevan fratelli; tutti e cinque di viso pallido e di grandi occhi neri scintillanti all’ombra di turbanti enormi; che ci passavano e ci ripassavano accanto, a briglia sciolta, col capo rovesciato indietro in un atteggiamento superbo. Come ci sarebbero state bene, su quelle selle color di porpora, fra quelle dieci braccia convulse, cinque odalische rapite al serraglio d’un Sultano! Belli! noi gridavamo; stupendi! splendidi! Ed essi rispondevano al nostro applauso con una spronata ed un urlo, e sparivano in mezzo al fumo, roteando in alto i lunghi fucili damascati d’oro colla gioia febbrile del trionfo.
Quei cinque eran figli, gli altri nipoti del governatore Ben-Auda.
Le cariche e le fucilate durarono per più d’un’ora, fin che giungemmo a un giardino del Governatore, dove si discese per riposare.
Era un boschetto di limoni e di aranci, piantati a file parallele, e fitti in maniera che formavano una volta intricatissima di verzura, sotto la quale si godeva un’ombra, un fresco e un profumo di paradiso.
In pochi momenti quell’oasi deliziosa fu ingombra e circondata di cavalli, di mule, di fuochi per le cucine, di servi affaccendati, di soldati dormenti.
Il governatore scese con noi e ci presentò i suoi figliuoli.
Ah! giuro che in quel momento, se avessi visto le cinque odalische slanciarsi al loro collo, non avrei nemmeno osato d’invidiarli, tanto eran belli, maestosi ed amabili. L’uno dopo l’altro ci strinsero la mano facendo un leggero inchino, e abbassando gli occhi sorridenti con una timidezza infantile.
Subito dopo cercarono il medico.
Il signor Miguerez si presentò domandando che cos’avevano.
In presenza di tutti noi, senza profferir parola, si scopersero tutti e cinque, quasi nello stesso tempo, il braccio sinistro....
Oh povere le mie odalische!
Avevan tutti e cinque il braccio, dalla spalla alla mano, coperto d’un’orribile erpete sifilitica.
— Ereditaria, — disse un di loro.
E il padre, là presente, soggiunse freddamente: — Ereditaria.
— Ed hanno qui vicine le acque sulfuree, — esclamò il medico; — potrebbero facilmente curarsi! Ma no signori! Bisogna che perdano il tempo e la salute coi versetti del Corano e cogli amuleti dei ciarlatani!
Diede loro un medicinale, si ricopersero il braccio e s’allontanarono pensierosi.
Poco dopo ci sedemmo in mezzo al giardino sopra un bellissimo tappeto di Rabat, su cui ci fu servita la colezione. Il governatore Ben-Auda sedette sopra una stuoia a venti passi da noi, e si fece egli pure portar la colezione dai suoi schiavi. Allora seguì uno scambio curiosissimo di cortesie fra lui e l’Ambasciatore. Il Ben-Auda mandò per il primo ad offrire un vaso di latte; l’Ambasciatore gli fece portare in ricambio una bistecca. Al latte tenne dietro il burro, alla bistecca una frittata, al burro un piatto dolce, alla frittata un scatola di sardine; tutto questo accompagnato da mille gesti freddamente cerimoniosi, e posar delle mani sul petto, e sguardi rivolti al cielo con un’espressione comicissima di voluttà gastronomica — Il dolce, tra parentesi, era una specie di torta fatta di miele, d’ova, di burro e di zucchero, della quale gli arabi sono ghiottissimi, e a cui si riferisce una strana superstizione: che se mentre la donna sta cuocendola, entra per caso un uomo nella stanza, la torta va a male, ed anco potendo, non è più prudente il mangiarne. — E il vino? — domandò uno. — Non gli si manda a offrire del vino? — Qui nacque una discussione. Si assicurava che il governatore Ben-Auda fosse, in segreto, devotissimo alla bottiglia; ma come avrebbe potuto ber vino in presenza dei suoi soldati? Fu deciso di non mandargliene. Mi parve però che volgesse alle bottiglie degli sguardi molto soavi; assai più soavi di quelli che rivolgeva a noi. Per tutto il tempo che stette là sulla stuoia, fuorchè nell’atto che ringraziava dei doni, serbò una serietà, un cipiglio, un’espressione di dispetto e d’orgoglio, che mi fece più volte desiderare d’aver là ai miei ordini, per farglieli sfilare sotto il naso, i nostri quaranta battaglioni di bersaglieri.
Mohammed Ducali mi raccontò in quel frattempo un episodio molto notevole della storia dei Ben-Auda, nelle mani dei quali è da tempo antico il governo della terra dei Seffiàn. Gli abitanti di questa terra hanno fama di turbolenti e di valorosi; e si dice che han dato prove splendide di valore nella recente guerra contro la Spagna, nella quale morì, alla Battaglia di Vad-Ras, il 23 marzo del 1861, Sidi Absalam ben-Abd-el-Krim ben Auda, allora governatore di tutta la provincia del Garb. A questo Absalam succedette il figlio maggiore Sidi-Abd-el Krim. Era un uomo violento e dissipatore, che spogliava il suo popolo coi balzelli e lo torturava con capricci feroci. Un giorno, fra le altre, intimò a un tal Gileli Ruqui di dargli una grossa somma di denaro. Questo si scusò dicendo ch’era povero. Egli lo fece caricar di catene e cacciare in prigione. Allora la famiglia e gli amici del prigioniero, vendettero tutti i loro averi e portarono a Sid-Abd-el Krim la somma richiesta. Gileli uscì di prigione, e appena uscito, radunò tutti i suoi, e fece con loro il giuramento solenne di uccidere il Governatore. La casa del Ben-Auda era posta a due ore di strada circa da quel giardino. I congiurati l’assalirono, in gran numero, nel cuore della notte, inaspettati. Uccisero le sentinelle, irruppero nelle sale, straziarono a pugnalate Sidi-Abd-el-Krim, le sue belle, i bimbi, i servi, le schiave, devastarono e incendiarono la casa, e poi si gettarono a traverso il paese innalzando il grido della rivolta. I parenti e i partigiani dei Ben-Auda raccolsero in furia tutta la loro gente e andarono incontro ai ribelli. I ribelli li dispersero e la rivolta si propagò per tutto il Garb. Allora il Sultano mandò un esercito; la ribellione, dopo una lotta accanita, fu domata; le teste dei principali rivoltosi spenzolarono dalle mura di Fez e di Marocco; la terra dei Beni-Malek venne divisa dalla provincia; la casa del Governatore fu ricostrutta; e Sidi-Mohamed Ben-Auda, fratello dell’ucciso, ospite dell’Ambasciata italiana, assunse il governo della terra dei suoi padri. Una passeggera rivincita della disperazione sulla tirannia, seguìta da una tirannia più dura: in questo fatto si riassume la storia d’ogni provincia e di tutto l’Impero. E forse in quel tempo era già predestinato un Ruqui anche per Sidi-Mohamed Ben-Auda.
Prima del tramonto del sole ci trovavamo tutti all’accampamento, ch’era posto poco lontano da quel giardino, in un piano solitario, ai piedi d’una piccola altura sulla quale si alzava una Cuba fiancheggiata da una palma.
Appena arrivato l’Ambasciatore, fu portata la mona e deposta come sempre davanti alla sua tenda, in presenza dell’Intendente, del Caid, dei soldati e dei servi. Mentre eran tutti occupati a far la solita ripartizione, vidi, alzando gli occhi verso la cuba, un uomo di alta statura e d’aspetto strano che scendeva a lunghi passi giù per la china verso l’accampamento. Non c’era da dubitarne: era il romito, il santo, che ci veniva a fare una scena. Non dissi nulla: aspettai. Invece di entrare nell’accampamento, girò infuori, per giungere inaspettato dinanzi alla tenda dell’Ambasciatore. S’avvicinò in punta di piedi. Era una figura sepolcrale, coperta di cenci neri, che metteva schifo e paura. Tutt’a un tratto spiccò la corsa, si cacciò in mezzo a noi, e riconosciuto al vestito l’Ambasciatore, gli si scagliò contro urlando come un ossesso. Ma ebbe appena il tempo d’urlare. Con una rapidità fulminea, il Caid lo afferrò alla strozza e lo stramazzò furiosamente in mezzo ai soldati, i quali in un batter d’occhio lo portarono fuori del campo soffocando colle cappe la sua voce tonante. Il signor Morteo si affrettò a tradurci le invettive di quel disgraziato: — Sterminiamoli tutti questi maledetti cani di cristiani, che vanno dal Sultano, e fanno tutto quello che vogliono, mentre noi moriamo di fame!
Poco dopo la presentazione della mona obbligatoria, arrivarono all’accampamento più di cinquanta servi arabi e neri, disposti in fila, che portavano in grandi scatole rotonde, chiuse da altissimi coperchi conici di paglia, ova, polli cotti, torte, dolci, arrosti, cuscussu, insalate, confetti; tanta roba da saziare una tribù affamata. Era una seconda mona, spontaneamente offerta all’Ambasciatore da Sidi-Mohamed-Ben-Auda, forse per farsi perdonare il cipiglio minaccioso della mattina.
I piatti non erano ancora messi in terra, che comparve il governatore coi suoi cinque figli, tutti a cavallo, seguiti da uno stuolo di servi.
L’Ambasciatore li ricevette nella sua tenda e conversò con loro per mezzo dell’interprete.
Che conversazione! Che gente! L’Ambasciatore domandò a uno dei figliuoli se aveva mai inteso nominar l’Italia. Rispose che l’avea intesa nominare parecchie volte. Uno di loro domandò quale dei due paesi, l’Inghilterra e l’Italia, fosse più lontano dal Marocco. Domandarono quanti cannoni abbiamo, come si chiama la nostra città capitale e in che modo è vestito il nostro Re. Parlando, osservarono attentamente tutti e sei il nodo delle nostre cravatte e le catenelle dei nostri orologi. L’Ambasciatore rivolse al governatore alcune domande intorno all’estensione e alla popolazione della sua terra. O che non sapesse nulla, o che, secondo l’uso, non volesse dire quel che sapeva per timore di qualche secondo fine misterioso, non ci fu modo di cavargli di bocca una risposta soddisfacente. — La popolazione, — mi ricordo che disse — non si può sapere esattamente quanta sia. — Ma press’a poco, gli fu osservato. — Ma è anche difficile il saperlo presso a poco, — rispose. Poi fecero a noi altre domande. V’è piaciuta la città d’Alkazar? Che ne dite del paese? L’acqua è buona, non è vero? Stareste volentieri nel Marocco? Perchè non avete condotte con voi le vostre donne? Quanti soldati può avere ai suoi ordini il capitano dell’esercito che è con voi? Quanto è grande il bastimento che comanda il capitano di marina? Facendo questi discorsi, bevettero il tè, e dopo molti inchini e strette di mano ed augurii, rimontarono a cavallo, diedero di sprone e disparvero. E dico sempre pensatamente disparvero, invece di se ne andarono, come dico apparire per giungere, perchè non vedendo mai da nessuna parte nè un villaggio nè una casa, tutti coloro che arrivavano e partivano ci facevano l’effetto di gente che uscisse di sotto terra e si dileguasse nell’aria.
Quella, come tutte le altre giornate, fu chiusa da un tramonto splendido e quieto, e da un desinare rumorosamente allegro. Ma la notte fu una delle più agitate del viaggio. Forse perchè la terra dei Seffiàn richiedeva che l’ambasciata fosse guardata con maggiore cautela che altrove, le sentinelle notturne si tennero reciprocamente sveglie cantando di quarto d’ora in quarto d’ora dei versetti del Corano. Una intonava la preghiera, tutte le altre rispondevano in coro, ad alta voce, accompagnate dai nitriti dei cavalli e dal latrato dei cani. Appena addormentati, ci svegliammo e non ci riuscì più di chiuder occhio. Per giunta, poco dopo la mezzanotte, in uno di quegli intervalli di silenzio, tuonò improvvisamente in mezzo alla campagna una voce squarciata e selvaggia che non tacque più fino all’alba. A momenti s’avvicinava, a momenti si sentiva appena, poi tornava a risonare più vicina, in tono di minaccia, di lamento, di disperazione, e prorompeva di tratto in tratto in grida acutissime e in risa sgangherate, che mettevan freddo nelle vene. Era il Santo che errava intorno all’accampamento, chiamando sopra di noi la maledizione di Dio. La mattina, quando uscimmo dalla tenda, era ancora ritto come uno spettro davanti alla sua cuba solitaria, colorata di rosa dai primi raggi del sole, e continuava a maledirci con voce roca, agitando le braccia spossate al disopra del capo.
Io cercai il cuoco per dimandargli che cosa pensasse di quel personaggio. Ma lo trovai tanto affaccendato, che non ebbi cuore di scherzare. Stava facendo il caffè e aveva intorno una folla impaziente che gli toglieva il respiro. Gli sguatteri gli parlavano arabo, il Ranni siciliano, il calafato napoletano, Hamed spagnuolo, il signor Vincent francese. — Ma se i ’v capisso nen, facie da forca! — gridava lui disperato. — Ma questa è una Babilonia! Ma lasciatemi respirare! Volete vedermi morto? Oh che pais, mi povr’om! Tutti a parlo e nssun a l’è bon a fesse capì! (Tutti parlano e nessuno è buono a farsi capire).
Appena riebbe un po’ di fiato gli accennai il Santo che continuava a urlare, e gli domandai: — Ebbene, che cosa ne dite di quelle impertinenze?
Alzò gli occhi verso la cuba, guardò fisso il Santo per qualche momento, e poi facendo un atto di profondo disprezzo rispose con accento piemontese:
— Guardo e passo!
E rientrò maestosamente nella tenda.