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valieri dei Seffiàn si schierarono sopra una sola linea, accanto ai trecento di Laracce, e il governatore Ben-Auda si presentò all’Ambasciatore.

Se vivessi cent’anni, non dimenticherei quella faccia. Era un vecchio secco, coll’occhio truce, col naso forcuto, con una bocca senza labbra, tagliata in forma d’un semicircolo rivolto in giù. La prepotenza, la superstizione, Venere, il kif, l’ozio e la sazietà d’ogni cosa, gli erano scritti sul viso. Un grosso turbante gli copriva la fronte e le orecchie. Un pugnale ricurvo gli pendeva al fianco.

L’Ambasciatore congedò il comandante della scorta di Laracce, che s’allontanò subito di galoppo coi suoi cavalieri; e ci rimettemmo in cammino colla scorta nuova, che cominciò immediatamente le cariche e i fuochi.

Erano faccie più nere, vestiti più variopinti, cavalli più belli, grida più strane, cariche più selvaggiamente impetuose di quelle che avevamo visto fino allora. Più andavamo innanzi, e più ogni cosa pigliava colore e contorno schiettamente marocchino.

Fra quella moltitudine ci diedero nell’occhio alla prima dodici cavalieri vestiti con eleganza principesca e montati su cavalli bellissimi, che gli stessi arabi della scorta guardavano con ammirazione. Cinque di questi eran giovanotti di forme