Magro compenso
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MAGRO COMPENSO
Suonavano allora le 11 ore di sera.
La giovane dama era già vestita quasi da un’ora pronta pel ballo. Sotto al portone la carrozza attendeva e le giungeva ad ogni tratto, dall’androne risonante lo scalpitio irrequieto dei cavalli impazienti.
Ed egli non veniva ancora.
Come mai? quali mai potevano essere gl’impegni seri, le occupazioni gravi che lo trattenevano anche quella sera lontano da lei?
Eppure egli le aveva promesso di non mancare, di essere di ritorno presto. Prima di partire, baciandole la mano, aveva detto:
— Mi assenterò per un’ora appena. Tu intanto preparati pel ballo. Io tornerò a prenderti. Procura di farti bella: tu sai ch’io sono orgoglioso della tua bellezza.
Come mai dunque, e perché egli tardava così? O come era cambiato da qualche tempo il suo Giorgio. Ora egli trovava mille pretesti per assentarsi di casa, per lasciarla sola, e così triste nel suo palazzo.
Aveva cominciato coll’assentarsi per lunghe ore di giorno, quasi per tutta la giornata, meno nella ora di colazione e di pranzo. Poi, anche dopo pranzo, nell’ora delle dolci intimità, in quell’ora così cara, così sospirata da lei nei primi tempi del loro matrimonio, egli a poco a poco si era abituato a chiamare il cameriere, a mettersi il cappello, ed uscire fino all’ora di condurla a teatro od ai ricevimenti delle amiche intime. E finalmente aveva finito per pregarla di mettersi sola nella sua carrozza e di farsi condurre così dov’ella voleva, e dove più tardi egli l’avrebbe raggiunta.
E a lei ch’era buona e ch’era saggia, tutta quella libertà le riusciva dispiacevole perché le pareva trascuratezza, perché ella sentiva di non bastare più al suo Giorgio, perché comprendeva di essere amata e desiderata ogni giorno un po’ meno.
Era gelosa? oh no! aveva troppo stima di sè e di suo marito. Ma, ad ogni modo, non si dava pace di quell’incomprensibile mutamento, di quella novità nel contegno di lui.
Oh! com’era buono, una volta, e come era carezzevole! Quante lunghe giornate egli aveva passate accanto a lei, contornandola di cure e di amore, innamorato come ai tempi primi del loro fidanzamento.
Ora invece aveva amici che lo volevano e lo reclamavano da tutte le parti: accusava partite di caccia, corse, cavalcate, da cui non poteva e non doveva esimersi; visite a cui, in tutti i modi, era obbligato.
Aveva assunto la presidenza di quasi tutti i circoli, di quasi tutte le società: e negli ultimi giorni l’avevano proposto a candidato nelle prossime elezioni.
E tutto, tutto per strapparlo a lei, per rubarle la felicità delle sue carezze, delle sue parole, del suo amore!
Ormai pareva che nulla si facesse senza la sua presenza. A sentirlo parlare, egli era un uomo indispensabile.
— Davvero, davvero, mia cara: mi muore l’anima di doverti lasciare anche oggi così sola, ma, lo vedi, sono proprio obbligato.
Egli le diceva così stringendole la mano, baciandole la fronte, accarezzandola sui capelli. Ma ella sentiva, che tutto ciò era falso, ch’egli, parlando, mentiva: glielo leggeva nel viso, l’udiva dal suono della voce, lo sentiva nel cuore. E il suo cuore non sbagliava mai.
Che cosa gli aveva mai fatto per essere trattata così? Nulla, nulla: e appunto perché egli non poteva rimproverarle nulla, per contenersi verso di lei in modo così inesplicabile, ricorreva spesso a piccole menzogne.
Quando si rivolgeva a lei difficilmente la guardava nel viso, aveva modi impacciati e timidi, mendicava le parole, si contraddiceva, talvolta, la risposta era così rapida, che pareva quasi preparata: o meglio, a lui, onesto, quella bugia riusciva così rincrescevole, che cercava di buttarla fuori tutta d’un fiato, per sottrarsi il più presto possibile a quel tormento.
Qualche volta anche, per farla tacere, per impedirle di parlare, per ricacciare quasi la domanda, che stava per spuntarle sulle labbra, egli le prendeva la testa colle mani, avvicinava la bocca alla sua bocca, la soffocava di baci: e quando, stordita e sorridente, si riaveva, non lo trovava più vicino a lei. Egli era già partito. Ed ella indovinava allora il perché di quella furia di carezze, di quella foga affettuosa, di quella finzione.
E quel sorriso, quella gioia, quella felicità erano sempre seguiti da un lungo scoppio di pianto.
Ed egli non tornava ancora. L’ora oramai era così tarda che forse, presentarsi quasi a metà della festa in casa della Marchesa Costanza, poteva sembrare una sconvenienza.
Ella era dunque decisa a dar ordini al cocchiere di staccare i cavalli, ed alla cameriera di recarsi nella sua camera per aiutarla a svestirsi.
Allungò la mano e toccò il campanello, mentre coll’altra si passò in fretta il fazzoletto sugli occhi per nascondere una lagrima.
Ma proprio in quel punto entrò il cameriere con un vassoio d’artgento nella mano.
Sul vassoio posava un piccolo astuccio di velluto e una lettera.
Quando il servo, a un cenno del suo capo, uscì dalla sala, ella strappò la busta e lesse rapidamente le poche righe scritte sul foglio.
Ma, man mano ella leggeva, una tristezza sempre più viva le si dipingeva nel viso.
Quella carta diceva così:
- “Mia adorata,
Uno dei casi più impreveduti mi ha obbligato e mi obbligherà forse per qualche ora al Circolo. Io sono desolato di averti fatto attendere fino a quest’ora e di doverti pregare di rinunciare a una festa a cui tenevi tanto.
Ma la tua bontà troverà certo per me una parola di giustificazione.
Intanto, perchè tu possa essere in qualche modo compensata del grave sacrificio, ti offro questo piccolo vezzo.
Accettalo ed ama il tuo
Giorgio.”
Amarlo? Oh! Ella lo ama davvero il suo Giorgio.
Ma era lui, lui solo che non sapeva apprezzare quel tesoro d’affetto. Forse ch’ella non lo imaginava il perchè di quell’assenza, di quel ritardo, di quella mancata promessa? Che cosa mai poteva essere quel caso impreveduto, e non specificato? Ah! Nulla, proprio nulla di serio!
Forse era una discussione vivace e piacevole, forse il giuoco, forse una cena progettata fra amici, forse una causa ancora più futile.
Ed egli aveva avuto il coraggio, per così poco, di farla attendere due ore, in veste da ballo, nella solitudine del suo salotto, pieno dei beati ricordi di un amore ohimè! passato per sempre: di rubarle la piccola e innocente felicità di quel ballo quasi di famiglia, la felicità di apparire bella, fresca, tutto, tutto per lui, per meritare solamente il suo orgoglio e il suo amore.
Ella prese nella mano l’astuccio di velluto e ne cavò il piccolo gioiello. Oh! quel gioiello era una cosa preziosissima, d’un valore inestimabile: un grosso brillante, contornato di perle con una legatura veramente artistica, squisitamente arieggiarne all’antico.
Ella, guardandolo, ebbe un piccolo sorriso, un sorriso che aveva qualche cosa di triste, e che rivelava un profondo struggimento dell’anima.
Egli le mandava quel dono credendo di compensarla con esso di un sacrificio, della privazione del suo amore.
No, no; ciò non sarebbe stato possibile mai.
Egli avrebbe potuto regalarle il più magnifico castello, posarle ai piedi tutti i favolosi tesori dell’Oriente, erigerle un trono tutto di gemme, ed ella si sarebbe sentita ancora il medesimo affanno, il medesimo dolore nel fondo dell’anima buona.
Il suo amore, il suo amore, il suo amore. Ella non voleva che il suo amore.
Ed ella si asciugò gli occhi pieni di lagrime mormorando:
— Dammi invece una casa piccina, ma un cuore grande!
F. Franceschini.