Macbeth/Nota preliminare
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NOTA PRELIMINARE.
Nulla di più grande nè di più terribile del Macbeth di Guglielmo Shakespear seppe creare la musa tragica dopo l’Eumenidi di Eschilo. Così giudicava il primo de’ critici alemanni A. W. Schlegel. Poche pagine d’un’antica cronaca scozzese ne ha fornito al poeta l’argomento. Si legge in essa, che regnando in Inghilterra Odoardo il Confessore, ebbe la Scozia un re di nome Duncano, il cui stato fu sconvolto da guerre esterne e da interne ribellioni; e che un Macbeth, valente capitano, debellò così gl’interni come gli esterni nemici di questo re; che tornando il Macbeth da una vittoria si avvenne in parecchie streghe, dalle quali fu predetto e salutato re futuro di Scozia; e che, traviato dal vaticinio, adescò nel proprio castello Duncano e lo uccise mentre dormiva, e postasi in capo la corona usurpata, diventò tiranno atrocissimo; finchè caduto in abominio dei soggetti, perdette il regno e la vita.
Tanta iniquità, nota lo stesso critico, accumulata in un uomo, non poteva essere lodevole soggetto dell’arte pel ribrezzo che necessariamente avrebbe ispirato al lettore ed allo spettatore, se il genio dello Shakespear, introducendo le streghe, non fosse ricorso al partito dei tragici greci, che attribuivano alla fatalità più che all’indole malvagia dell’uomo l’impulso ai delitti. E con tale artificio, oltre avere il poeta scemato l’orrore nel suo protagonista, aperse col meraviglioso una fonte di potenti emozioni, che nessun fingimento poetico ha mai saputo produrre.
Questa tragedia fu già resa italiana in prosa e in verso da lodati scrittori; ma la traduzione del mio illustre amico Giulio Carcano, per diligente fedeltà e per bellezza di stile e di verso, a tutte è superiore. Parrà dunque cosa stranissima ed uno spreco di tempo l’avermi dato ad un lavoro così ben conosciuto. Dirò nondimeno a mia discolpa, che non tradussi il Macbeth sull’originale inglese, ma sulla libera traduzione che ne fece Friedrich Schiller destinata al teatro di Weimar. Se una penna qualunque, tranne quella dello Schiller, avesse osato di alterare, omettere, aggiungere un solo concetto a questo miracolo di tragedia, sarebbe stata una profanazione. Ma chi ardirebbe dar tale accusa al sommo tragico alemanno, che se a lui non si appaja del tutto, gli va di poco lontano? Mi parve adunque di presentare un pascolo alla dotta curiosità degl’Italiani, i quali, confrontando la mia traduzione con quella di Giulio Carcano, entrambe fedeli ai loro testi, potranno vederne i passi (e sono ben pochi) nei quali ha stimato lo Schiller di modificare l’originale.
Con più coraggio, e senza timore di biasimo, tradussi la Turandot, che lo Schiller imitò dal nostro Carlo Gozzi. Le fiabe o favole di questo bizzarro ingegno, quasi al tutto dimenticate da noi (colpa, io credo, dello stile e del verso trascuratissimi), ebbero non poco favore presso gl’Inglesi, e meglio presso i Tedeschi. Benchè gli Spagnoli precorressero agli uni e agli altri nel sentire il bisogno di allargare i confini della drammatica, non ruppero con molta felicità il freno delle antiche teorie come in Inghilterra lo Shakespear, ed in Alemagna il Lessing, il Goethe e lo Schiller. Carlo Gozzi in Italia fu il primo a sottrarsi a quel giogo, a tentare un genere nuovo di sceniche produzioni, svincolandosi non soltanto dalle forme tipiche del dramma, ma da quella legge altresì che vieta l’usare nel verso la parola propria; lo che toglie in gran parte l’effetto dell’azione, non potendo il poeta drammatico nè giungere all’eccellenza, nè manco avvicinarsele, con un eloquio artificiato, che distrugge in chi legge e in chi ascolta quella illusione che «fa del non ver vera rancura.» Ma, come dissi, lo stile e il verso usato dal Gozzi non erano tali da produrre fra noi questa felice innovazione. Negletto al suo tempo era lo studio de’ buoni scrittori toscani, e quello di Dante principalmente; perciò la lingua de’ suoi componimenti teatrali, dove non è triviale e scorretta, sente il mal influsso d’un pomposo e arcadico fraseggiare. — A queste ragioni, secondo il mio avviso, vuolsi ascrivere quel gran favore che ottennero le sue Fiabe, massimamente in Germania, osando i suoi critici di accostarle alle creazioni dello Shakespear medesimo. Non resta tuttavia che in esse apparisca e forza inventiva ed effetto, e di mezzo alle più capricciose e talora assurde fantasie, una verità ed una conoscenza del cuore umano che ti sorprende e rapisce.
Questi scenici lavori del Gozzi vennero in Germania avidamente letti in una versione, non troppo felice, d’anonimo autore, pubblicata in Berna nell’anno 1777, finchè la gran mente di Federico Schiller si umiliò ad imitare la Turandot, che diede egli alla luce nel 1804, col titolo di Turandot principessa della Cina, Fiaba tragicomica di Carlo Gozzi.
Nella mirabile poesia dello Schiller la fola del Gozzi si è levata ad una vita novella, e la informe tessitura assunse una ordinata originalità tutta propria, come nella poesia dell’Ariosto si nobilitarono i triviali eroi del Bojardo: a tale che la Turandot è divenuta piacevole e desiderata rappresentazione de’ teatri tedeschi. E potrebbe essere anche de’ nostri con leggeri mutamenti, e dando altro nome alle maschere veneziane oggigiorno insopportabili.
Ma non è mio proposito analizzare le bellezze e gli errori del Gozzi, avendone largamente scritto lo Schlegel e il Ginguené tra’ forestieri, il Sismondi e Camillo Ugoni tra noi. Quest’ultimo scrittore, d’animo e di mente nobilissimo, e ch’io conobbi ed amai nella mia prima gioventù, mi eccitò a tradurre una scena della Turandot dalla imitazione che ne aveva fatta lo Schiller, e la inserì nel terzo volume, Articolo III della sua Storia letteraria pubblicata in continuazione ai Secoli della Letteratura italiana del suo concittadino Corniani. A questi valorosi critici può rivolgersi chi amasse per avventura informarsi più addentro negli scritti e nell’ingegno di Carlo Gozzi. A me basta aver dimostrato che il difetto di forma fu cagione principalissima che uno scrittore italiano venisse dagli stranieri tanto apprezzato, e così poco da’ suoi: e tenendomi nella traduzione strettamente fedele, per quanto l’indole varia delle due lingue me lo permise, tentai di farne spiccare le nuove bellezze di stile che a piene mani vi ha profuso l’autore del Wattenstein e della Stuarda.
Giacchè gli stranieri, non di rado ingiusti nel giudicarne, ci consentono questa gloria, quasi da noi rifiutata, accogliamola di buon grado e con animo riconoscente.