Lo schiavetto/Atto terzo/Scena V
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Giovan Battista Andreini - Lo schiavetto (1612)
Atto terzo - Scena V
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Nottola, Cicala, Corte, Rampino, Grillo, Alberto, Prudenza
- Nottola.
- Paggi, immaginatevi ch’io sia un cielo, nel cielo vi è il sole, ch’è giallo, e la luna, ch’è bianca. Dal cielo nè il sole nè la luna giamai si partono, similmente voi altri da me non v’allontanate giamai, ma l’uno alla destra, l’altro alla sinistra mi stia, con queste due sottocoppe grandi, larghe e pesanti. L’un sarà il tondo del sole, e sarà questa dove sono gli scudi d’oro, l’altra sarà il tondo della luna, e sarà questa con tanta moneta d’argento.
- Alberto.
- All’eccellenza sua umilmente a terra si china Alberto, suo devotissimo servo.
- Nottola.
- O miser Alberto nostro, vi vogliamo fare una grazia.
- Alberto.
- E che, signore?
- Nottola.
- Che mi veniate a dar da sedere. Via, presto, camminate.
- Alberto.
- Eccomi signore. Sua eccellenza lasci ch’io la stropicci un poco.
- Nottola.
- Basta, basta, che in ogni modo noi portiamo un vestimento se non un giorno solo. Rampino?
- Rampino.
- Eccomi umile e riverente, signore.
- Nottola.
- Da’ da sedere alla signora Prudenza, che voglio che mi stia appresso.
- Alberto.
- Tanto alto luogo non merita, o mio signore (e mi perdoni) così bassa serva.
- Nottola.
- Vogliamo così perché possiamo, possiamo perché vogliamo, e il volere e il potere è al piacere congiunto; sì che vogliamo perché ne diletta e piace.
- Alberto.
- Sù, dunque, fa’ una bella riverenza e siedi.
- Nottola.
- Sedete sedete, signora Prudenza, non abbiate rispetto; sù, cavatevi il guanto, datemi la mano in mano. O signor Alberto, che modo di procedere è questo? che muso storto mi fa la vostra figliola? non si vuol cavare il guanto? Al cospettaccio della mia generosità, ch’io le fo tagliar quella mano! Potta, rinego, al cospetto, se me la fa attaccare.
- Alberto.
- Càvati quel guanto! Oh mio signore, le rimembri ch’è verginella ancora e solo avezza ad ubbidire i commandi paterni.
- Nottola.
- Prudenza, ditemi: non vi dispiace già di sedermi appresso, non è così?
- Prudenza.
- Signor no.
- Nottola.
- Eh? Un eccellentissimo avanti quel signor no, non averebbe detto male; ché quel signor no così solo è un poco languido, ma con quell’eccellentissimo signor no, oh come diceva buono.
- Prudenza.
- Eccellentissimo signor no.
- Nottola.
- Oh? Adesso avete cervello. O pigliate, ché per levarvi da quelle tenebre d’errori, che vi fece errare, vi dono un gran pugno di luce, ch’ora dal mio sole io levo.
- Alberto.
- Se gli errori di mia figlia debbono esser corretti con questi flagelli, poss’ella sempre errare.
- Nottola.
- Sì? Ma voi non l’intendete; come più di due fiate uno dei miei erra, io li fo tagliar la testa. Vedete, signora, io sono il più dolce pastone che con zucchero e mèle fosse giamai impastato, ma quando m’incollero poi, divento una serpe. Baciatemi questa mano.
- Prudenza.
- Ecco, signore.
- Nottola.
- Un’altra volta; un’altra volta pigliate queste due brancate di luna, pigliate pure questo piccicotto di sole.
- Alberto.
- O me contentissimo, potrò ben dire, signor principe, che per sempre dovrò godere eterno giorno, se di tanti raggi, e di luna e di sole, sua eccellenza illumina le tenebre della povertà mia.
- Nottola.
- Signora. Volete voi che appieno vi faccia signora e della mia luna e del mio sole?
- Prudenza.
- Ohimè. Che a tanta luce confusa io non rimanga poi, mio signore; pure porga la mano, quello che alla mano offre il generoso suo core.
- Nottola.
- Chiudete gli occhi, o così.
- Alberto.
- Signore?
- Prudenza.
- Olà, un bacio?
- Nottola.
- Dirolle. Per fare che il sole e la luna abbiano sempre da stare con eterna pace con voi, gli ho per sicurtà posto questo bacio di mezo.
- Alberto.
- Oh figliola, ha fatto molto bene.
- Prudenza.
- S’è così, sole e luna, m’acqueto.
- Nottola.
- Or prendete e la luna e il sole.
- Prudenza.
- Caro signor padre, non ho grembo per tanto lucido tesoro.
- Nottola.
- Or sù. Oggi intendiamo, per far che il giorno sii solenne, di conceder grazie; però s’alcuno v’è di quelle voglioso, sia, parli, chieda. Fate vento canaglia, che vi fo scorticar vivi, vivi, e così scorticati vorrò che per penitenza mi facciate vento con le vostre pelli, vedete. Ma che vuol dire, signor Alberto, che a questo suono di chieder grazie tutto bullicate? Volete forse alcuna cosa? Volete forse ch’io vi faccia far vento con le mie ventaiole? Andate là, presto, servitelo.
- Alberto.
- No no signore, fermatevi paggi, non voglio vento.
- Nottola.
- Fate vento a me. Che volete? Dite presto, ché mi vien sonno. Dite pure, ché ben che si riposiamo sopra questa mano, vi sentiremo però.
- Alberto.
- O caro signor maggiordomo, debbe io tacere o parlare? Mi pare che gli occhi abbia agravati di sonno.
- Prudenza.
- Uh? Signor padre, sentite come sornacchia forte, mi fa paura. Caro signore?
- Alberto.
- Sta’ cheta, ché si desta.
- Nottola.
- Seguitate signor Alberto, da gentiluomo, ch’io ho sonno. E voi, canaglia, mentre parla il signor Alberto, non isputate meno, acciò ch’io possa ascoltarlo bene. Dite signor Alberto, che non dormo no, ben ch’io m’appoggi alquanto alla sedia; questo è costume di tutte le persone grandi, doppo che hanno desinato, di star così stravaccate.
- Alberto.
- Questa sera sua eccellenza starà meglio, e quello che madonna Succiola doveva far per desinare, servirà per la cena, poi che l’ora è tarda e l’eccellenza sua s’è compiaciuta solo d’una poca di colazioncella da me fattale. Ora signore... Ma mi par che dorma al sicuro, s’io pur non erro.
- Rampino.
- Eh? Non dorme no, sente bene sì, parlate pure.
- Alberto.
- Non sente, vostra signorìa, che gli è tornato il sornacchio? Aiuto, aiuto, cade!
- Nottola.
- O poverino me, o servitori infedeli, a seguaci traditori, a cotesta foggia lasciar cader la nobiltà? Ohimè questo fianco! Ohimè, ohimè! A Rampino, così eh? così mi custodisci?
- Rampino.
- Mi scusi, e m’interceda il perdono l’aver sua eccellenza detto che non dormiva.
- Nottola.
- È così, signora Prudenza? Hollo detto?
- Prudenza.
- Sì signore.
- Nottola.
- Sia perdonato a tutti. Or torno a sedere, né più ho sonno, poiché la caduta giù della seggiola hammi cavato il sonno dal capo. Che volete signor Alberto? Vedete, in quattro parole chiedetelo, se non, m’addormento.
- Alberto.
- Vorrei.
- Nottola.
- Una.
- Alberto.
- Prudenza.
- Nottola.
- Due.
- Alberto.
- Sua.
- Nottola.
- Tre.
- Alberto.
- Sposa.
- Nottola.
- E quattro. Io mi contento, ecco le tocco la mano; e le fo contradote di tre milioni d’oro, d’un sacco di perle, e d’uno staio di diamanti. Andiamo a consumare il matrimonio.
- Prudenza.
- Signor padre, signor padre, aiuto, aiuto.
- Alberto.
- Signor gennero, e che fa?
- Nottola.
- Che padre, che genero? Ora m’è venuto voglia di matrimoniare e voglio matrimoniare, al sicuro.
- Alberto.
- Eh, caro signore, per amor del vulgo, in grazia, prima si vada al palazzo, e poi al letto.
- Nottola.
- Da vero sposo, e da illustrissimo cavaliere, che avete ragione. Or sù, mi si scusi, andiamo al palazzo.
- Prudenza.
- O me misera, o Orazio mio.
- Nottola.
- Vi accettiamo per nostro amato suocero; e più non vi si chiami con quel nome umile d’Alberto schietto, ma del signor conte Alberto, e noi vi doniamo la contea, la quale ora è in potere del Gran Turco, ma gle la piglieremo bene fra poco.
- Alberto.
- Pur troppo sono signore essendo servo di sua eccellenza e la mia figlia è serva e sposa.
- Nottola.
- Fatevi in qua; lasciate ch’io vi cinga questa spada. O così, cacciate la mano, ponetela dentro, slacciatela da voi, baciate il pomolo, inginocchiatevi, dàtemela, siete creato conte. Gridisi viva Alberto conte.
- Rampino.
- Sù tutti cridate: viva Alberto conte! viva Alberto conte!
- Nottola.
- Levatevi in piè, fate una riverenza in giro, copritevi. Oh? Ora siete ordinato conte.