Lo schiavetto/Atto secondo/Scena IX

Atto secondo - Scena IX

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Caino, con quattro facchini, Scemoel, Leon, Sensale, Fulgenzio, e duo altri fachini

Caino.
Affé, che questo giorno il topo dovrà correre al lardo! Dica chi vuole, ogn’uno dice: «Siete avaro miser Caino, giamai non volete vender le cose vostre, se non vi sono strapagate, e ciò v’interviene perché avete la sacca di buone piastre, da mantenervi su questo proposito; ma un giorno, un giorno la robba vi si marcirà in bottega!». Ma dirò come dice quello: in tuchal dice la quaglia. O vediamo un poco se la robba s’è marcita in bottega! Ho toccato poco fa dinari freschi, e ora ne toccherò de gli altri. Uh, uh? L’è qui questi mischadin che non han mammon tov, seno chinochem.
Leon.
Bondì a vostra manalà! Siamo qui ancora noi, per far bene, se la ne potrà aiutare ne farà favore, poich’ella tanto bisogno non ha, come noi; però ne favorisca che prima gli mostriamo le nostre robbe.
Caino.
Io mi contento figlioli, fate bene, ch’io vi do campofranco.
Fulgenzio.
Adesso è tempo ch’io mi cacci fra la turba; ma non sapendo parlare ebraico fingerò il mutolo.
Ba, ba ba, ba?
Leon.
Questo è muto e ne saluta, per quanto ne dimostra il gesto cortese; e di più convien che sia forestiero, non l’avendo qui giamai in Pesaro veduto.
Sensale.
Lasciate, ch’io l’intenderò, c’ho lingua muta, e in quel linguaggio parlo molto bene.
Caino.
Tu mi vuoi far ridere; che lingua muta?
Sensale.
Che lingua muta? O state a sentire. Be, be, be, be? Vedete voi, costui, co’l suo ba ba ba ba, n’ha detto buon dì a tutti e io, co’l mio be, be, be, be, gli ho detto che tutti noi gli rendiamo il buon giorno.
Scemoel.
Bene, per la Torrà, séguita, séguita, io stupisco di simil cosa.
Leon.
E io.
Fulgenzio.
Barau, babbù; gnaù, gnargnaù, gnaù gnaù?
Sensale.
Oh? Vedete, questa è mo lingua gattesina, con la mutosina mescolata.
Caino.
E come gli risponderai? Eh, eh, eh.
Sensale.
Non ridete, perché la cosa va così.
Leon.
Ma come risponderai?
Sensale.
O vi dirò: a questa lingua gattesina, risponderò con lingua sorzolina. Ma sapete voi quello che gattesinescamente, e mutescamente, ha detto? Vuoi che lo dica, muto? Bene, non intende questo linguaggio, e vedete che non s’è mosso, né ha risposto. Aspettate, che gle lo dirò. Barabam, barabam, bi, be, ba?
Fulgenzio.
Fi, fe, fo, fu.
Sensale.
Dice di sì, che ve lo dica.
Fulgenzio.
Qua qui, quara, qui, qua, que qui?
Sensale.
Di più, dice che vorrebbe vendere anch’egli, poiché se, per fare il mercante, ha perduto in man di Turchi la lingua, vuole anche, mercantando, perder la vita.
Caino.
Tu mi fa stuppire, né so chi t’abbia insegnata questa lingua.
Sensale.
Chi me l’ha insegnata? Un muto, che teneva scuola in questa lingua.
Leon.
Or sù, muto, si contentiamo che tu facci bene. Ma a che dimena il capo?
Sensale.
Se vi dissi che non intende, se non il mio linguaggio?
O questa è bella, io non so che mi dica, e costui m’intende.
Lasciate fare a me. Nebi, nebe, be, be? Vedete, che china il capo?
O cànchero, questa è bella! Non volendo io parlo muto.
Or sù: stipin, bipin, ripin? Ho detto che stia cheto.
Fulgenzio.
Rispin, rispin.
Sensale.
Sentite? Dice che tacerà. Or che dite, non sono un gran valent’uomo?
Caino.
Tu n’hai fatto tutti stupire, e vogliosi di questa lingua mutesina, gattesina e sorzolina.