Lo schiavetto/Atto secondo/Scena IX
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Giovan Battista Andreini - Lo schiavetto (1612)
Atto secondo - Scena IX
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Caino, con quattro facchini, Scemoel, Leon, Sensale, Fulgenzio, e duo altri fachini
- Caino.
- Affé, che questo giorno il topo dovrà correre al lardo! Dica chi vuole, ogn’uno dice: «Siete avaro miser Caino, giamai non volete vender le cose vostre, se non vi sono strapagate, e ciò v’interviene perché avete la sacca di buone piastre, da mantenervi su questo proposito; ma un giorno, un giorno la robba vi si marcirà in bottega!». Ma dirò come dice quello: in tuchal dice la quaglia. O vediamo un poco se la robba s’è marcita in bottega! Ho toccato poco fa dinari freschi, e ora ne toccherò de gli altri. Uh, uh? L’è qui questi mischadin che non han mammon tov, seno chinochem.
- Leon.
- Bondì a vostra manalà! Siamo qui ancora noi, per far bene, se la ne potrà aiutare ne farà favore, poich’ella tanto bisogno non ha, come noi; però ne favorisca che prima gli mostriamo le nostre robbe.
- Caino.
- Io mi contento figlioli, fate bene, ch’io vi do campofranco.
- Fulgenzio.
- Adesso è tempo ch’io mi cacci fra la turba; ma non sapendo parlare ebraico fingerò il mutolo.
- Ba, ba ba, ba?
- Leon.
- Questo è muto e ne saluta, per quanto ne dimostra il gesto cortese; e di più convien che sia forestiero, non l’avendo qui giamai in Pesaro veduto.
- Sensale.
- Lasciate, ch’io l’intenderò, c’ho lingua muta, e in quel linguaggio parlo molto bene.
- Caino.
- Tu mi vuoi far ridere; che lingua muta?
- Sensale.
- Che lingua muta? O state a sentire. Be, be, be, be? Vedete voi, costui, co’l suo ba ba ba ba, n’ha detto buon dì a tutti e io, co’l mio be, be, be, be, gli ho detto che tutti noi gli rendiamo il buon giorno.
- Scemoel.
- Bene, per la Torrà, séguita, séguita, io stupisco di simil cosa.
- Leon.
- E io.
- Fulgenzio.
- Barau, babbù; gnaù, gnargnaù, gnaù gnaù?
- Sensale.
- Oh? Vedete, questa è mo lingua gattesina, con la mutosina mescolata.
- Caino.
- E come gli risponderai? Eh, eh, eh.
- Sensale.
- Non ridete, perché la cosa va così.
- Leon.
- Ma come risponderai?
- Sensale.
- O vi dirò: a questa lingua gattesina, risponderò con lingua sorzolina. Ma sapete voi quello che gattesinescamente, e mutescamente, ha detto? Vuoi che lo dica, muto? Bene, non intende questo linguaggio, e vedete che non s’è mosso, né ha risposto. Aspettate, che gle lo dirò. Barabam, barabam, bi, be, ba?
- Fulgenzio.
- Fi, fe, fo, fu.
- Sensale.
- Dice di sì, che ve lo dica.
- Fulgenzio.
- Qua qui, quara, qui, qua, que qui?
- Sensale.
- Di più, dice che vorrebbe vendere anch’egli, poiché se, per fare il mercante, ha perduto in man di Turchi la lingua, vuole anche, mercantando, perder la vita.
- Caino.
- Tu mi fa stuppire, né so chi t’abbia insegnata questa lingua.
- Sensale.
- Chi me l’ha insegnata? Un muto, che teneva scuola in questa lingua.
- Leon.
- Or sù, muto, si contentiamo che tu facci bene. Ma a che dimena il capo?
- Sensale.
- Se vi dissi che non intende, se non il mio linguaggio?
- O questa è bella, io non so che mi dica, e costui m’intende.
- Lasciate fare a me. Nebi, nebe, be, be? Vedete, che china il capo?
- O cànchero, questa è bella! Non volendo io parlo muto.
- Or sù: stipin, bipin, ripin? Ho detto che stia cheto.
- Fulgenzio.
- Rispin, rispin.
- Sensale.
- Sentite? Dice che tacerà. Or che dite, non sono un gran valent’uomo?
- Caino.
- Tu n’hai fatto tutti stupire, e vogliosi di questa lingua mutesina, gattesina e sorzolina.