Lo schiavetto/Atto secondo/Scena II
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Giovan Battista Andreini - Lo schiavetto (1612)
Atto secondo - Scena II
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Prudenza, Orazio, Fulgenzio
- Prudenza.
- Chi è là? chi batte?
- Orazio.
- Orazio suo, mia signora, il suo servo.
- Prudenza.
- O mio caro Orazio, o esempio di fedeltà inaudita! Sia per mille volte il ben venuto colui, per lo quale cara m’è quest’aria e questo cielo.
- Orazio.
- O mia cara Prudenza, o vero seggio della beltade e d’amore! Pur ella sia per infinite volte la ben trovata, come per infinite volte per lei in istato di somma felicità Orazio si trova.
- Prudenza.
- Taccia pur colui, che scrisse che la fede, il sonno e il vento cose fallaci erano, poi che la fede, che in Orazio è sempre stabile, fa chiaro conoscere che la fede in vero amatore fonda le radici, come robusta quercia in altissimo monte.
- Orazio.
- Taccia pur per sempre colui che disse che soavissima e gioconda cosa era il guardare la donna bella, ma il toccarla pericolosissima, poiché Prudenza nel mirarla porge contento a gli occhi, ma provasi poi tutto il contento che nel regno d’Amore gustar si puote, se nel seno la stringi; come sper’io di fare in breve, se dalla sua pietà non mi verrà un tanto bene vietato.
- Prudenza.
- Sarà di sicuro, e sarà in breve; poiché assai più caro mi fia che ’l mio Orazio mi cinga al seno delle sue braccia amoroso monile, che se quello cinto mi fosse dalle più lucide e preziose gemme dell’Oriente.
- Fulgenzio.
- Ohimè, che veggio? Voglio qui in disparte farmi osservatore d’ogni parola, d’ogni atto.
- Orazio.
- Certo mio bene, che debbo io fare, che m’impone, onde Prudenza rimanga ubbidita, servita, e quello sciocco di Fulgenzio burlato?
- Fulgenzio.
- O traditrice, o traditore.
- Prudenza.
- L’ordine è questo; e credami pure, che tale già io non istimava ch’esser dovesse.
- Orazio.
- Perché non tale?
- Prudenza.
- Perché dall’avere mio padre a caso ricettato un principe in casa, ho preso anch’io partito novo, di quanto intenderà.
- Fulgenzio.
- Di’ pur, ché sordo non sarò per isturbarti.
- Prudenza.
- Impose questo principe che per vestir sé medesmo, e tutta la sua famiglia, si ritrovassero molti Ebrei, che carichi di belle vestimenta qui a casa venissero. Ora intendo che, per goder d’amore, ella non si sdegni di fingere uno di questi Ebrei; così ella se ne verrà in casa, e, mentre mio padre e questo principe e altri intenti saranno al vestirsi, e noi prontissimi allo spogliarsi (per dir così), in qualche parte sicura godremmo de’ nostri amori, i quali tanto più saranno dolci e grati, quanto più erano disperati.
- Orazio.
- Certo, che sola questa invenzione mi poteva far degno di ricevere così cari doni, poiché più è custodita questa sua entrata, che da Cerbero custodita non è la porta d’Averno; o vero le poma d’oro dall’esperido Dragone. Pur sa che più volte holla al padre suo fatta chiedere per mia signora e consorte, ma egli avendo più risguardo alla molta mia povertà, che alla molta nobiltà mia, sempre hammi fatto intendere che per falliti non è sua figlia.
- Fulgenzio.
- Né sarà di sicuro.
- Prudenza.
- Or sia ricco d’inganni Orazio tanto, quanto è povero di beni di fortuna e abbondantissimo di nobiltade. Ingannisi pur questo Mida, e quel ganimeduccio di Fulgenzio, cui credendo meco di parlare (goffo), non s’avedeva ch’amendue solazzar faceva, non a lui, ma a lei essendo tutti indirizzati i concetti del mio cuore, dell’anima mia.
- Fulgenzio.
- Ben goffo da vero io fui, nol nego.
- Prudenza.
- E forse che non istringeva que’ baci al seno? e forse che i baci non ribaciava? Ma il pazzo stringeva il vento e l’aria baciava; poiché solo al cielo della sua bella bocca rapidamente con i baci colà volava la innamorata e baciatrice anima mia.
- Fulgenzio.
- O fidati poi di donne.
- Orazio.
- Mia vita, perché dar tempo al tempo non si dee, quando a fine trar si vuole cosa di grande affare, da lei partendomi, m’anderò a porre nell’abito ch’ella cotanto brama.
- Prudenza.
- Parta, mio cuore, poiché ’l tempo ha per costume di non ritornare giamai, se una sol volta da noi fugge. Addio mio corpo, addio mio spirito, addio mio cuore, addio mia ala, addio.
- Orazio.
- Pur, mio bene, baciandole quelle belle labra, che servono a me per duo rubini animati, per que’ duo oli che sono il fondamento della vita mia, le dico partendo addio, ma però addio d’un breve addio.
- Fulgenzio.
- Ah Prudenza imprudente, or t’avedrai, se così facile ti sarà il beffar il misero Fulgenzio! Tu, tu sarai la schernita, tu l’ingannata! E che stimi forse che non saprò io tanto ingannatore ingannare, quanto tu ingannatrice ingannasti? O fortuna, ben dir poss’io che se’ come il mare, ch’ora in calma prometti gioie, or turbato ministri noie. Anzi, che per questa instabilità tua dir possiamo ch’a noi intervenga come al marinaro nel mare del vento, perché sì come ora l’ha secondo e ora del tutto contrario, così ancor tu a’ pensieri umani or se’ seconda, or tutta aversa. Però sì come quegli spiega la vela ove spira il buon vento, quello ricevendo or a pioggia, or ad orza e superando ogni duro incontro in porto si ricovra, così parimente, quando l’uomo ha la fortuna amica, pigliare la dee, e la vela concederle de i desiri suoi; ma se contraria spira, debbe raccôrre il lino, e con tal forza all’empito suo opporsi, e al suo furore, che quantunque ella lo combatta sempre, egli contro di lei si mostri fermo e costante, e cerchi mal suo grado andare al porto al quale ha già drizzato il suo pensiero. Animo, ardire e core, che colà molta lode s’acquista dove l’arditezza è molta! Io, io quegli sarò che, da ebreo vestito, quello rapirò che conceder volevi ad Orazio! Io già lo precorro, io già primo la soglia, già nelle braccia ti stringo, già di nemica ti fo amante! Duolmi d’usar questo termine, e vorrei certo sì chiederti al padre, ma so che se tu se’ stata negata in consorte ad Orazio, per esser povero, ch’a me conceduta meno saresti, pur gentiluomo poverissimo anch’io essendo. Or sù.
- Vincasi pur per forza, o per inganno / ché le vittorie gloriose fanno.