Lo schiavetto/Atto quinto/Scena X
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Giovan Battista Andreini - Lo schiavetto (1612)
Atto quinto - Scena X
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Caino, Belisario, Corte, e tutti quelli della scena di sopra
- Caino.
- Non dicit tante paraule. Ch’io abbia il mio, ben condizionat, ché li vostri zevvin sono qui; avete trovat un hichudi molt galant’uomo.
- Belisario.
- Basta.
- Nottola.
- O che dolor di denti, bisogna con questo fazzoletto mi tenga calde le gote, anzi che vada in casa, per aceto da sacquarmeli.
- Rampino.
- La seguito signore anch’io.
- Belisario.
- Come vi dico è quello, pigliàtelo.
- Corte.
- Che vuol dir tanta gente? S’è forse fatto qualche rumore?
- Alberto.
- Anzi, allegrezza vi s’è fatto, mercè d’una comedia, che ha fatta recitar un generoso signore.
- Succiola.
- Oh, i’ la vedo imbrogliata cotesta ciuciurlaia.
- Corte.
- E dov’è questo signore, questo conte?
- Alberto.
- Se gli è mosso il corpo, per lo freddo che improviso gli è venuto; gli è saltato il dolor ne’ denti ed è andato in casa per aceto con un suo caro.
- Corte.
- In qual casa entrò?
- Alberto.
- In questa, ch’è mia.
- Belisario.
- Sù, entrate tutti colà.
- Nottola.
- A beccacci.
- Rampino.
- A furbi.
- Alberto.
- Guarda guarda.
- Corte.
- Su i tetti? e da quelli gettate i tetti stessi?
- Nottola.
- Sì becco, to’.
- Rampino.
- To’.
- Corte.
- Sotto figlioli, con taburri in capo.
- Nottola.
- Sotto? To’ quella.
- Corte.
- Rotelle in capo, rotelle in capo!
- Rampino.
- Sassate in capo, sassate in capo, to’ pure! Ti so dir che piovono.
- Alberto.
- O povera mia casa.
- Corte.
- Sparate delle archibugiate.
- Alberto.
- Eh no.
- Corte.
- Che no? Sparate, dico.
- Alberto.
- O poveracci, son morti al certo.
- Corte.
- Dentro, dentro, dentro.
- Belisario.
- Entrate pur, ch’entro anch’io.
- Alberto.
- O povero me, voglio entrare anch’io.
- Prudenza.
- E no, caro signor padre, che fra queste archibugiate voi alcuna fiata pericolaste.
- Alberto.
- Che romore è questo, Caino?
- Caino.
- Il conte è un ladro. Sì, per la Torà.
- Alberto.
- O povero me, ché mi spezzano e casse e usci e finestre.
- Corte.
- Piglia, piglia, piglia.
- Succiola.
- O poveraccio.
- Nottola.
- S’io lo so? A beccacci.
- Belisario.
- Piglia il traditore.
- Corte.
- Là, là! Guarda, che fugge! Spara, spara, un’altra, un’altra. Addosso, addosso!
- Nottola.
- Or sù ci sono. Andiamo in prigione, sù via che diavolo fate?
- Corte.
- A furbo, tu ci se’ eh? Alla forca, alla forca! S’era chiuso in un casson di farina.
- Nottola.
- O questo sapeva che doveva essere il sugello di tutte le mie ladre fatiche.
- Belisario.
- Mi duole com’hai rubato mille cose, così tu non abbia mille colli da poter mille volte essere appiccato.
- Nottola.
- Ha ragione in vero, però, cari signori, ogni uno di voi il suo collo mi presti, per farmi appiccare tante volte quante il signor Belisario desidera; e voi, Belisario, siate il primo.
- Belisario.
- O che scellato, ancora ischerza ed è vicino alla forca.
- Nottola.
- Oh? Se adesso veggo la mia natività adempiuta qual era, ch’io gli ultimi scherzi li doveva fare su la forca, non volete ch’io faccia quello che le stelle mi minacciarono?
- Rampino.
- Ah manigoldo, e forse ch’io non credeva di difendere un conte, il quale, per tanta bravura mia, mi dovesse poi ricompensare? Ladronaccio poltrone! Caro Bargello, se non v’è boia, fate che sia io quello, ché allora conoscerò anch’io che virtù di stella mi fu posto nome Rampino, accioché io potessi sostener nell’aria questa carne da corbi.
- Nottola.
- Fatti appiccar volentieri, quando un conte per trattenimento si fa appicar teco, onorandoti tanto la forca. Oh caro vecchietto, mi volete troppo bene! So che non vi darà mai il cuore di farmi appiccare, siete troppo spauroso, avreste tema ch’io venisse la notte a farvi paura.
- Belisario.
- Oh bene, fa’ come dice il proverbio. Vatti apicca’ e poi viemmi a far paura.
- Nottola.
- Orsù signori, so che questo vecchio burla, come pur per fargli una burletta anch’io gli aveva portato via tutto il suo.
- Succiola.
- Poca cosa ha fatto, solo un bada tutto! O che briccone.
- Nottola.
- Udite e poi tutti gridate per l’invenzione spiritosa: viva viva il Trinca! viva il Trinca! ché tale è ’l mio nome, per dilettarmi molto di bere, sin da piccolino avendo perciò fatto fallire un mercante da vino.
- Belisario.
- La volete più bella, signori? Da picciolo e da grande alfine di costui doveva e ruvinare e assassinare. Or sù comincia.
- Nottola.
- Signori, state a sentire e riderete poi. Da piccolino, a questo sfortunato (e non so chi diavolo glelo ponesse in capo) gli venne voglia di pigliarmi a star seco, e perché io faceva di segreto il ruffiano a sua moglie.
- Belisario.
- Menti per la gola!
- Nottola.
- Di grazia, lasciatemi dire l’istoria come va. Costei mi pose grande affezione, e così fece ancora che questo povero messer Cornelio...
- Belisario.
- Che Cornelio? Cornuto se’ tu.
- Nottola.
- Ma fusè senza filo. Lasciatimi finire. In somma dico, tanto fece, che questo vecchio non vedeva per altri occhi che per i miei.
- Belisario.
- Te ne menti.
- Nottola.
- Aspetta, vecchio, che non si finisce la fòla, che ti voglio far porre in prigione per monetario.
- Belisario.
- O povero me.
- Nottola.
- Fammi lasciare, ché sarà meglio, e perdonami, se non che vivo o morto, ti voglio ruvinare: morto con lo spiritarti, vivo col far bruciarti.
- Corte.
- Non temete, signore.
- Facceto.
- E furfante, le parole de’ maligni gli uomini d’onore offendono in quella guisa che offende il fulmine l’alloro, il fuoco la salamandra e il veleno Mitridate.
- Nottola.
- Sì, Mitridate! Tu sa’ bene quello che dir posso di te! Adagio, tu per lo meno vai in berlina.
- Succiola.
- Fagioli! S’io parlo, vo alla frusta senz’aitro.
- Corte.
- Finisci pure, acciò che ’l boia possa incominciari.
- Nottola.
- E così come vi dico, non potendo aver figli, questa vacca di sua moglie mi fece suo figliolo addotivo. Morì costei, e costui di lì a poco pur s’ammalò, e perché io sentiva che i medici dicevano che sarebbe andata in lungo questa sua malattia, non potendo più questa minchioneria aspetare, per non aver occasione una notte d’accoparlo, per termine di carità vinto, presi tutte le sue gioie, i suoi dinari, gli argenti, e me la battei, desideroso di fermarmi in una città e alla barba sua di sguazzare. Ma il suo malanno ha voluto che questo ladro mi venga per i piedi, prima che io abbia potuto goder l’utile di questo figliolo addotivo. Or che saprai dire vecchio bacucco? non è mia questa roba? non se’ tu meritevole d’una forca? Di’ sù, da’ la sentenza. Via, pigliàtelo e menàtelo prigione.
- Alberto.
- E perché piange vostra signorìa?
- Belisario.
- Io piango perché vengo a rinovellare gli scherzi suoi puerili, quali tanto già mi piacquero, come ora mi dispiace di dover esser la sua ruina, con così calamitoso e disonorato modo.
- Nottola.
- So che tu m’ha’ da perdonare, ma io non voglio.
- Belisario.
- Sai tu chi prega ora nel mio côre per te? L’amore, che mia moglie Felippa ispida ti portava, e que’ baci, che in tenera età da me ricevesti e da te lo colsi; per tanto, mentre ch’io abbia il mio, io ti perdono.
- Nottola.
- E poi?
- Belisario.
- E poi, va’ a far bene.
- Nottola.
- Va’ a far bene? Così non canta il mio gallo; dir bisogna: e poi tu ritorni in grazia mia. In somma, io ho preso troppo amore a questa vostra roba.
- Belisario.
- Or sù, sia tua. L’amor ch’io porto a te è di gran lunga maggiore di quello ch’io porto a questi beni di fortuna, quali doppo al morir mio alcun obbligo non m’avranno, né di me avranno ricordanza alcuna; sono cose insensate alfine e fecie della terra. Tu, almeno, non credo che così discortese sarai che, in età adulta ritrovandoti un giorno, e per me fatto ricco, tu non abbia il Cielo da pregar per la salute di quest’alma e lodarmi alcuna fiata fra gli uomini. Io ti perdono e ti rintegro nella grazia mia. Caino? Andate voi a dar sodisfazione alla Corte, ché poscia io verrò da voi e si accorderemo.
- Alberto.
- E io vi prometto, o vecchio cortese, che tutto quello che scioccamente ha donato in qua e in là costui, tutto vi sarà ritornato.
- Corte.
- Sciogliete tutti duo. E voi, vecchio, fate che Caino ne tratti bene, perché l’essersi voltato costui alla Corte, è di qualche considerazione, se l’accusassimo.
- Belisario.
- Caino, contenta ciascuno e per mio amore si taccia.
- Caino.
- Venite, e senza fallo state allegri, ch’io lo farò.
- Nottola.
- Dite pure, o Bargello, al boia, che sempre tutto sono al suo servizio. O caro vecchio, vi bacio e piango, considerando al favore che m’avete fatto e vi giuro che mi sforzerò, se tanto potrò, d’esser galant’uomo.
- Alberto.
- Tenerezza di povero vecchio, come l’abbraccia, come piange. Lodato il Cielo, che alfine modo n’insegnò di trarre dall’assenzio il mèle. Ogn’uno, in questo giorno, lieto può nominarsi: godrà Prudenza d’esser di Fulgenzio consorte; godrà Orazio d’esser di Florinda marito; giubilerà Lelio d’aver ritrovata la sorella, l’amata amante e il vecchio Belisario il suo Trinca tanto trincato.
- Rondone.
- Ne vogliamo noi fare una più bella? Succiola, io pur era già oste in Sinigaglia, ma fallii; pigliami per marito.
- Succiola.
- Sìe, i’ mi contento, ma con il patto.
- Rondone.
- E quale?
- Succiola.
- Di fatti fare il gioco de’ fanciulli, cioè il Bicicu, quando a cavaluccio montandosi dicono: «Bicicu cù cù, quante corna stan qua sù?».
- Rondone.
- Oh? Come tu non vuoi altro, dammi la mano, son dalla tua.
- Succiola.
- Al corpo di mene, ch’i’ son contenta! Tocchela quie, abbracciamoci, basciamoci, ma averti, che tu m’ha da vestir di camurra, ché zimarrine non vo’ per casa.
- Grillo.
- E Grillo in qual buco si ficcherà, o signore spose?
- Cicala.
- E Cicala su qual ramo canterà, signore belle?
- Nottola.
- Cari signori, vi raccomando i miei paggi: han servito conti, considerino che pure sapranno servir gentiluomini privati.
- Schiavetto.
- Or sù io piglio Grillo.
- Grillo.
- O cara signora vi bacio la mano.
- Prudenza.
- E io piglio Cicala.
- Cicala.
- O che siate benedetta! Vi bacio anch’io la veste e ’l sotto veste.
- Rampino.
- Solo Rampino, tanto fedele al suo signore, rimarrà senza appoggio.
- Nottola.
- Or sù, vien qua. In ogni modo Belisario e io vogliamo tenere una cavalcatura, tu sta’ meco e a voi altri donerò tanto che potrete andare commodamente alle vostre case, state allegri.
- Belisario.
- Mi contento di tutto quello che vuole il mio caro figliolo Trinca.
- Facceto.
- E tu, Solfanello, da me non t’allontanerai, poi che intendo Orazio (se così vorrà) venga a far sua vita nella bella Partenope.
- Orazio.
- Farò, caro cognato e signore, quello che più gli agradirà.
- Solfanello.
- E io pure, signora sposa, che Solfanello sono, servirò per accendere quelle tante fascine che si dovranno consumare per far cucinare le robbe nuziali.
- Alberto.
- Or poi, che ’l tutto è assettato, rimane solo che voi altri gentilissimi spettatori vi leviate da questo luogo e verso la cena v’indirizziate, perché (a dirvela) se a sorte, tirati dalla gola di queste tre para di nozze, voi qui faceste dimora, sappiate, come finte sono queste case, così sono stati finti gli amori e finti gli sposalizi, onde perciò finti ancora saranno i banchetti, sì che se morir non volete dalla fame ogn’uno vada a vedere come sta la sua pignatta; e chi pignatta al fuoco non ha per sua sventura, pigli in una mano del pane, nell’altra la generosità del conte Nottola e alla meglio giunga al fine della sua grassa cena. Dio vi salvi, a rivedersi.