Lo schiavetto/Atto quinto/Scena IX
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Giovan Battista Andreini - Lo schiavetto (1612)
Atto quinto - Scena IX
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Succiola, Facceto, Solfanello, Paggio, Nottola, Rampino, Orazio, Rondone, Schiavetto, Alberto, Fulgenzio, Prudenza
- Grillo.
- Io m’addimando Grillo, e perciò fuora da questo canto io ficco il capo, e mi rallegro di questi amori, anzi vi prometto che la prima notte del gaudeamus, voglio sotto il capezzale vostro tanto cantare, che giamai il sonno v’entri ne gli occhi, onde meglio possa alla sposa lo sposo dilettare.
- Alberto.
- O che furbetto, eh, eh, eh.
- Nottola.
- Così li voglio, eh, eh, eh.
- Cicala.
- Ecco pure, che da quest’altro canto con il capo spunto. Altro non dirò, salvo, o signori sposi, ch’io sono Cicala, e a voi pur prometto che a mezo di quando sarete all’ombra di qualche pianta (voi m’intendete) voglio anch’io forte più del solito cantare, perché non si senta il rumor de’ vostri baciucci inzuccherati.
- Nottola.
- Eh, eh, eh, è costui pur al peso.
- Schiavetto.
- O caro Grillo, o caro Cicala, quanto mi hanno piaciute queste vostre fanciullesche accortezze.
- Nottola.
- Sì? Poi che tanto v’hanno amendue piaciuti, signora io ve gli dono. Di più, con cento livree per ciascuno appresso.
- Schiavetto.
- Ohimè qual Cesare, qual Creso, qual Traiano furono giamai di vostra eccellenza invittissima più grandi e più invitti?
- Nottola.
- Invittisima, invitti? Sei mila scudi vi dono, da far loro le spese e da mandargli qualche volta alla stufa e a far tosare.
- Schiavetto.
- O generoso eroe.
- Nottola.
- Generoso eroe? Vi dono una braghetta alla tedesca, tutta ricamata di rubini e di diamanti in punta.
- Cicala.
- Ho paura, signora, che vi piacerà più tosto il braghetto che tutti gli adornamenti, io, non è così? Dite il vero. Ah, ah, ridete? A signora Schiavetta furbetta, amorosetta, ninetta, buffetta, atta a farvi star sempre l’uomo inanzi senza beretta.
- Schiavetto.
- O ghiottoncello.
- Nottola.
- Ma ecco Succiola con duo uomini. Che diavolo di fantaccini proibiti sono questi?
- Succiola.
- Or sù Facceto, andianne da cotesto principe, ché ti vo’ far ricco, e di poi me ne voggio andare sino al vinaio a imbiancar de’ panni. Oh? Eccolo appunto. Che di’ tu Facceto, non par oggi il carnasciale?
- Nottola.
- Succiola.
- Succiola.
- Oh? Signore, i’ son quie, e di piue le arreco una buona novella, qual è che in coteste nozze da cotestui i’ vi prometto una bella comedia.
- Nottola.
- Comedia eh? E apunto noi altri prìncipi non si dilettiamo d’altro.
- Succiola.
- Come d’altro non si diletta, ecco chi gnene caverà la voggia.
- Nottola.
- Vien qua, comediante. Com’è ’l tuo nome?
- Facceto.
- Facceto, per inchinarmi (com’or fo con quattro inchini) a chi merita che tutto il mondo se l’inchini.
- Nottola.
- O come ha fatto presto, e leggiadre, quelle quattro riverenze, eh, eh, eh, mi fa ridere il comediante e ancor non lo vedo a comediare.
- Alberto.
- Pensa poi vostra eccellenza quando nel teatro lo vedremo diverse persone e abiti fingere, se diveremo d’Agelasti Democriti.
- Nottola.
- Accòstati.
- Facceto.
- Eccomi, signore.
- Nottola.
- Baciami la mano.
- Facceto.
- Ecco, signore.
- Nottola.
- Costui conosce ch’è gran virtù subito ubidire ai prìncipi. Olà?
- Rampino.
- Signore?
- Nottola.
- Donagli una collana.
- Rampino.
- Adesso, signore. Pigliate, fate animo, e di più apparecchiatevi di fare una bella comedia.
- Facceto.
- Signore, per certo che mercè sua dir si puote che sia tornato il tempo dove più abbondavano i meccenati.
- Nottola.
- Or sù, mentre, o Facceto, teco parlo, fa’ porre in ordine la tua comedia.
- Facceto.
- Solfanello.
- Nottola.
- O che nome.
- Solfanello.
- Signore, che vuole?
- Facceto.
- Tira le tele.
- Solfanello.
- Sì signore, or ora ammanisco il tutto.
- Nottola.
- Facceto.
- Facceto.
- Signore.
- Nottola.
- Vi date del signore tra voi altri, ch’egli è uno spasso! Ma gli abiti poi, pare a me che non sieno conformi a quelle tante signorìe.
- Facceto.
- La virtù, altissimo signore, è quella che fa l’uomo meritevole del nome del signore; anzi la virtù è quella che rende pari al maggiore del mondo il più basso uomo che viva. Pendono da un solo e da una istessa fonte tutti i viventi; e cadano dal Cielo pari di nobiltà l’anime ne’ nostri corpi. Tutti i virgulti della vita umana vengono da un ceppo, tutti siamo frondi d’una istessa pianta, che cadiamo egualmente nel generale autunno della morte.
- Nottola.
- Oh come discorre altramente. Dove fai lo studio tuo, su i campanilli?
- Facceto.
- Parerà, appresso gl’indotti, che l’eccellenza sua scherzi, così udendola favellare, ma con questo detto Facceto vuol dinotare quei nobilissimi studii che sovra gli alti monti facevano i filosofi antichi, quando nella polvere d’essi monti scrivevano e ritornandovi vi ritrovavano l’istesse cose scritte. E questo perché andavano tant’alto che quasi passavano la seconda region dell’aria, dove si formano tuoni, saette, tempesta, e simili, il tutto colà sovra trovando purissimo.
- Nottola.
- Alla fé, che l’ha indovinata. E che ti credi ch’io sia qualche goffo? Or sù, quanti personaggi entrano in questa tua comedia?
- Facceto.
- Diece, signore.
- Succiola.
- O che cicalone.
- Nottola.
- State cheta madonna, che vi farà dar tre tratti di corda, vedete.
- Succiola.
- Fune a me?
- Nottola.
- A voi.
- Succiola.
- Eh? L’ha errata cotesta fiata. Non mi si può dar di fune, né a me né a l’altre donne.
- Nottola.
- Perché?
- Succiola.
- Oh? Perché siamo aperte dal di sotto.
- Nottola.
- Eh, eh, eh, questa certo è stata bella, che ne dite signori?
- Alberto.
- Costei è scaltrissima.
- Succiola.
- Anzi isguaidrinissima.
- Nottola.
- Or sù a noi. Voi siete diece personaggi eh?
- Facceto.
- Diece signore, così è.
- Nottola.
- Sì? Or sù chiameli.
- Facceto.
- Mo sua eccellenza guardi me, e in me tutti gli scorga.
- Nottola.
- So che tu se’ il capo, ma solo non puoi far la comedia.
- Facceto.
- Dico solo, signore.
- Nottola.
- E come solo, se diece v’intervengono? Di’ beccaccio, tu mi burli?
- Alberto.
- O signore, che fate?
- Nottola.
- Non mi tenete, lasciatemi.
- Fulgenzio.
- Piano, piano signore.
- Nottola.
- Non mi si tenga dico, ché con questo pugnale lo voglio ammazzare.
- Solfanello.
- Eh? Vostra signorìa non l’intende.
- Nottola.
- Do’ becco, io non l’intendo? Aspetta, aspetta.
- Orazio.
- Eh, fermatevi signori.
- Nottola.
- Fermatevi? Teco la voglio.
- Succiola.
- O che spiritato, che gli sia fritto i granelli! Signore, deh mi si ascolti. O che sgraziato! Odami caro signore.
- Nottola.
- Parli Succiola, e gli altri stiano cheti, se non, ch’io gli fo cavar le lingue e le fo salare per memoria de’ disubidienti, e ispavento.
- Succiola.
- O come e’ mi guata stralocchio, mi fa paura. Signore, a cotest’otta è ammanito il palco, per dir cosìe, sono le tele tirate, e alla comedia principio dar non si puoe. O che domine di baccellate e fagiolate sono coteste?
- Nottola.
- Comedia? palco posto? tele tirate? M’è passata la collera, virtù tenendo la comedia di rallegrare. Càppari, so che noi altri prìncipi come cacciamo mano all’arme facciamo paura. Voi mi parete tante galline fuggite dalla volpe.
- Facceto.
- Si debbono temere le persone grandi, perché cose grandi possono fare, senza chiedere ad alcuno licenza, né consiglio; e poi, voce adirata di principe, squilla di morte dir si suole.
- Nottola.
- Tu di’ bene.
- Facceto.
- Ma perché sappia sua eccellenza come diece e solo io sia, sappia ch’io solo tutte queste diece parti rappresento.
- Nottola.
- Questa è cosa molto grande. Pure dalle parole veniamo a’ fatti; il tuo apparato è già all’ordine. Sentiamoci noi signori, e tu va’ ad incominciare.
- Facceto.
- Appunto a questo fine di darle spasso presi una coppia di galanti sonatori e or mi parto. Sù sonatori, alle gioie, a i piaceri, sonate! Sù, che s’indugia?
- Nottola.
- A sedere signori, dove sono gli scagni e le seggiole? Sù presto, canaglia, andate per esse.
- Succiola.
- O potta di santanulla, lasciate la cura a mene! Vien qua tue, tue; movetevi ancor voi bel cero, oh? tu non vedi? e che sì, che ci vogliono e’ pungoli?
- Rampino.
- Via presto, meco tutti.
- Nottola.
- O che bel concerto di suono. Meser Alberto?
- Alberto.
- Signore.
- Nottola.
- Andate a darli quattrocento scudi di caparra, che stanno tutti meco.
- Alberto.
- Vado signore, e gli proferirò per ora il dinaro per non istare tanto co ’l contargli.
- Nottola.
- Or sù tornate in qua.
- Alberto.
- Vengo signore.
- Nottola.
- Tamen andate là.
- Alberto.
- Vado.
- Nottola.
- Non andate.
- Alberto.
- Non vado. O che umore.
- Nottola.
- Ecco da sedere. Sù sù, sentiamosi tutti.
- Succiola.
- Eccone, eccone, eccogi qua, eccogi qua, i be’ scanni.
- Rampino.
- Ecco qui, signore, tutto per ordine.
- Nottola.
- Accomodiamoci. Fermatevi sonatori, finché s’è accomodato ogn’uno signore. Sù sù, sedete sedete, non più cerimonie. Oh? Sù figlioli, battete de’ piedi, fischiate, cridate, e dite: «Fuora, fuora canaglia!».
- Alberto.
- Ah signore, queste azioni cadino lontane da gli animi ben nati e solo quelli questi strepiti faccino, che, non conoscendo che sia virtù, a tali insolenze si volgono.
- Nottola.
- Ma ve la dirò io. In ogni città ho udito sempre far cotesto baccano a i comedianti, e perciò lo faceva anch’io.
- Alberto.
- E questa gente, appunto, è la fecce de’ più furfanti delle cittadi, ch’ad altro intenta non è che a fare insolenze, e quando in altro luogo far non le ponno, nelle stesse loro povere case alla presenza delle loro mogli e figli, così sfacciati similmente essendo, danno occasione di lasciar eredi (se non di virtù) di prosunzione almeno i loro poveri figlioli, quali co ’l crescer della insolenza del padre, crescend’essi in cattivi e vituperosi costumi, fatti sono alfine gemme da legar con le manette alla bottega de gli sbirri, cocconi da turare i buchi alla berlina, e pendenti da rendere adorno il seno di madonna forca.
- Nottola.
- Certo ch’ell’è così. Or sù, che si torni a sonare, e poi si dia principio e alcuno non faccia strepito. Oh questi suoni mi piacciono pur tanto, tanto, tanto. Oh? Ecco il prologo.
- Facceto.
- Gentilissimi signori, io sono il prologo, a così degna presenza comparso per chiedere il silenzio.
- Nottola.
- Olà, chi è quello che parla di voi altri?
- Rampino.
- Niuno, mio signore.
- Nottola.
- Come niuno? Do’ puttanaccia! Non senti che dice che si faccia silenzio?
- Facceto.
- Eh signore, ch’è così costume del prologo di chieder il silenzio, ben che si faccia silenzio.
- Nottola.
- Non so tanti prologhi io! Si può far la comedia senza prologo?
- Facceto.
- Signor sì.
- Nottola.
- Or falla. Via, presto.
- Facceto.
- Ecco, signore, ch’io le vo a dar principio.
- Alberto.
- Sua eccellenza ha fatto molto bene, in ogni modo al tempo nostro il prologo è corpo, o per meglio dire, membro separato dalla comedia.
- Nottola.
- Or sù cheti, cheti di grazia, ché già comincio a ridere, eh, eh eh.
- Facceto.
- Zuane? Missir. Dov’estu? A su in cantina. Che fastu? A tragh dol vì. Dove xe Nespola? Col cul su la paia. A bestia su i grizzoli; dove xela digo? Nel zardì sagnur. A che far? A che fà? Intat che l’ortolà se lava el ravanel, ela se tosa la pimpinella. Eh, ehe, eh! El xe forza che mi rida. Mo signor Pianelon (potta de zuda) vegnerà mai ste vin? Signor Dottor el vegnerà adesso. Mo ste ales no vien mai lu? L’alesso non vegnerà mai certo per la signorìa vostra, perché a vu xe destinà solo el rosto, che de i fatti vostri in sabo de mattina se aspetta. Mo che ho da far de l’ost mi? Mo te no vi? Tuò tuò tuò! Doh garbantouna, mo ti è qui nespolountina. Oh? Son qui signore, e vi do nova com’i’ son fatta la sposa.
- Succiola.
- Oh? Cotesto bel cero uccella e’ fiorentini, per quanto ascolto.
- Alberto.
- Sta’ cheta Succiola, la comedia va così.
- Succiola.
- Or sue, non diroe più nulla; i’ staroe ad udire. Scicali pure.
- Facceto.
- Càncaro, si’ donca fatta la spinosa? Signor sìe, i’ sono la spinosa venuta or ora da via Pentolini. O che furba, saveu che cos’è, Dottor, via Pentolini? Borg non int’el miè paes. Giusto giusto el xe l’istesso. Ma, car signor Pianelon, mutamos verba. Mo, caro signor stivalon, no me secché pì co ste fiabe. O ben vegnud, messier Zan! Com’è, bon sto voster vin? L’è lu ol plù bon vì, che se sia mai bevut. Lassademel mo sentir! Oh l’è pur bon. Un’altra sorsadina. Fermef, fermef e che intendif de fà? Mo me vot far anegar biestia? O scornadù! Te te ment per la gola. Ohimè. Che xelo signor mef e che intendif de fà? Mo me vot far anegar, biestia? O quanto sangue, ohimene. A marmirol, to’ sto pugn. To’ ti an quest. Fermève là, a chi digo? To’ sarafins. To’ an ti gaiof. To’ ti. To’ ti. E fermàtivi! Ohimène, un calcio nel ventre, ohimène! E destacchève, Zane a chi digh’io? Potta de zuda tirév in là! Ohimèi un pugno a mi, porco salvadego? Ammazzève, bestiazze! E me tiogo de sotto.
- Nottola.
- O che rumor fa colui, ed è solo. Alla fé che questo è un bel comediare. O eccolo.
- Facceto.
- O poverazzo mi, me forbo el naso e mel reforbo, ma no vedo zà sangue. Inefetto la xe cusì: chi sparte la quistion combate con cento. Mi ho arlevà un pugno, che averave buttà via el scartozzo d’un campanil, e pur el naso si xe al so liogo. Che vustu mo far? Bisogna al seguro che ti vada dal barbier per far guarir Grazian, daspò che Zanne, to servidor, ghe ha pettà del boccal su’l cao, e per zò nel romperse ghe si xe piantà el manego int’el fronte, sì che el par un lioncorno todesco.
- Nottola.
- A Pantalone, potresti far una pastoralina?
- Facceto.
- Signor sì.
- Nottola.
- Di grazia, una pastorale, ché questo rumor di boccali e di ferite non mi piace! Mi ricordo de’ miei nemici e, in cambio di movermi a diletto, tu mi disgusti dal pelo del capo fino alle ugne de’ piedi.
- Facceto.
- Di grazia, signore, farò sonare di nuovo e senza prologo darò principio ad una pastorale.
- Nottola.
- Sì, di grazia.
- Alberto.
- Oh la pastorale è cosa molto lieta per l’apparato verde e fiorito, e per vedere pastori e ninfe trattare puri e dolci amori, quali appunto le città trattar dovrebbono, per goder (malgrado del ferro) la età dell’oro.
- Prudenza.
- O quanto m’è caro, signori, di sentire una pastorale.
- Schiavetto.
- E io pure signore, ché ho inteso a dire che sono cose così belle.
- Succiola.
- E io poi? Con un orliccio di pane, i’ ne sentirei quattro in fila, i’ non ho aitro gusto.
- Alberto.
- O veda, sua eccellenza, che sopra la tela della comedia ha lasciato cader per di sopra un’altra tela dipinta, che sembra un luogo boscareccio e di prati fioriti.
- Nottola.
- Bello da vero, or sù silenzio.
- Facceto.
- Be, be, be, be.
- Nottola.
- O che sporco principio è questo? Pare a me che solo questa pastorale s’abbia da recitar fra becchi e pecore, e che rumore di be, be, be? Se tutte le pastorali sono così, si ponno recitare nelle stalle.
- Facceto.
- Be, be, be.
- Nottola.
- Facceto?
- Facceto.
- Signore.
- Nottola.
- E che vogliono dire queste pecore?
- Facceto.
- Miri, sua eccellenza, io sono da pastore vestito, e fingo qui d’intorno di guardare la greggia; onde per questo ne succederanno altre belle cose.
- Nottola.
- E gli è un brutto principio, per averne a seguitar poi cose belle.
- Facceto.
- Brutto ancora era colà nelle deformità sue prime il caos. E ora vediamo da quel deforme principio che cose belle ne sieno seguite.
- Nottola.
- Or sù, a dar principio.
- Facceto.
- Io vado e m’inchino.
- Nottola.
- O come que’ saltarelli nel partire che fa mi piacciono.
- Alberto.
- Egli è certo molto ridicoloso.
- Succiola.
- I’ non posso punto punto ridere; o che sciudice cose.
- Nottola.
- Orsù, cheto ogn’uno.
- Facceto.
- Be, be, be, be, guarda il lupo.
- Nottola.
- Ohimè.
- Facceto.
- Il lupo il lupo.
- Nottola.
- Il lupo? Salva, salva.
- Alberto.
- Dove signore?
- Fulgenzio.
- Che vuol dire?
- Facceto.
- Il lupo, il lupo, il lupo.
- Nottola.
- Non mi tenete, ohimè ch’io perdo la voce.
- Facceto.
- E che vuol dire signore?
- Nottola.
- Traditore, tu vuoi essere cagione della mia ruvina eh? M’hai fatta una paura con quello «al lupo, al lupo» ch’io ho ruinate tutte le calze.
- Facceto.
- Eh? Ch’è cosa finta, signore.
- Nottola.
- Se la tua è stata finta, è bene stata verace la mia.
- Facceto.
- Ma perché tanto spavento di cosa mentita? Io stupisco.
- Nottola.
- E io putisco. Or ti dirò. Sappi, che la mia navità disse ch’io portava gran pericolo d’esser mangiato da’ lupi; e come sento quel nome, parmi di vederlo con gli occhi di fuoco, co ’l ventre asciutto e con la bocca armata di denti, che mi si lanci. Lascia pure questa tua pastorale intitolata la Be, be, be. Sai far altro?
- Facceto.
- So far delle tragedie.
- Nottola.
- Sì? O va’ a tragediare, via presto.
- Facceto.
- Adesso, adesso.
- Orazio.
- O questa sarà bene una degna rappresentazione.
- Nottola.
- Non v’intervengono già pecore? Dite il vero, meser Alberto.
- Alberto.
- No signore, le pecore non hanno che fare con le persone tragiche.
- Nottola.
- O così le bramo. Ma che panno nero è quello che ha lasciato cadere sopra quel verde e fiorito?
- Alberto.
- Eh? Va così signore, questa s’addimanda tragica pompa.
- Nottola.
- E questi suoni hanno da sonar così mesti ancora?
- Fulgenzio.
- Sì signore.
- Nottola.
- Queste trombe e tamburi ancora, e sorde e scordati ci vanno?
- Orazio.
- Questi sono principii di cose tragiche, che suspendono gli animi alla maraviglia.
- Nottola.
- Ohimè, che fiamme son queste? Acqua, acqua, si brucia la tragedia, si brucia la tragedia!
- Alberto.
- No no, signore, non tema; questi sono fuochi finti.
- Nottola.
- Fuochi finti? Oh? Com’è così, torniamo a sedere.
- Orazio.
- Riposi pur l’animo suo, e lo prepari a cose degne.
- Nottola.
- Ma sì, che cosa è questo? Questo è bene il diavolo. Ohimè, ohimè.
- Alberto.
- No signore, non è il diavolo, è un’ombra, un’ombra.
- Nottola.
- L’intendo, l’intendo messere; ma pare a me che un’ombra e il diavolo sia una cosa istessa. Ohimè fatelo levar di là, ché mi vien fastidio.
- Facceto.
- Eh? Signore, ché son io.
- Nottola.
- Alla fé, che se tu ti usi a farmi di queste comedie, io ti farò impiccare per la gola! Non voglio più comedie, anzi gli voglio esser più nemico che ’l polcino del nibio. Olà?
- Rampino.
- Signore.
- Nottola.
- Donagli cinquanta scudi e che vada a far comedie nella comediarìa.
- Orazio.
- Mio signore, mi concede in grazia ch’io dia a costui da fare un bel suggetto di comedia amoroso, per doppo cena, che al lume di torchi e con un poco di palco posticcio, averà più maestà la comedia?
- Nottola.
- Sì, caro signor Orazio, dateglielo, e si mandi a chiamare sessanta marangoni e s’incominci a far fare il palco; e venghino or ora trenta carra di tavole e di travi.
- Alberto.
- Lasci il carico a me del palco, che si farà con assai meno roba; e il carico del suggetto al signor Orazio.
- Nottola.
- Io mi contento. Dite il suggetto; e nota bene, ve? ché ogni errore ha da essere una pugnalata.
- Facceto.
- Io non temo d’errare, signore. Dica pure questo signore, ché ben farò un suggettino che starà ne gli ordini della Poetica; e ben ch’ei non sia d’un filosofo non importerà, poi che ’l costume d’oggi così comporta.
- Orazio.
- Or dunque, ascolta. Voglio che ’l suggetto si finga qui in Pesaro (e sarà bello di sicuro, perché è caso amoroso e occorso appunto oggi). Fingerai che un giovine, nomato Orazio, amasse una Prudenza e fosse riamato; ma per esser questi Orazio povero, il padre di Prudenza detto Alberto gle la neghi in consorte. Farai di più che questi Orazio, da Prudenza riamato, avesse un abito e mantello in modo tale, il quale faccia sì che, ora da ebreo, ora da quello che riceve in nota i morti vestito, ottenga con inganno Prudenza. In questo tempo che Orazio ama Prudenza, farai che una giovine bellissima, in abito da uomo, si finga uno schiavo, il quale vendendo segreti vada per lo mondo, e giunta in questa città trovi Orazio inamorato di questa Prudenza. E perch’ella, fino in Napoli, da quest’Orazio sotto fede maritale perdette l’onore, termini perciò di tôrgli la vita e qui mandi un suo, detto Rondone, per veleno allo speziale, farci con quello de’ moscardini e aveleni l’amante. Farai che la Corte sopragiunga, la pigli e condannata sia a morte. Ma inteso poi che non è veleno, s’intenerisca la giustizia, se le perdoni e così rimanga questa giovine consorte di Orazio.
- Nottola.
- O potta di me, questo sarà il bel commediaccione Ma mettimici dentro me ancora e con miei doni s’aggrandisca questo suggetto; e fa’ di più ch’io volessi pur questa Prudenza per moglie e che, stufatomi, da me sia rinunziata a Fulgenzio.
- Facceto.
- Bello aggiunto, in vero. E qual è questa donna tanto generosa? com’ha nome?
- Orazio.
- Ha nome Florinda, ed eccola colà.
- Facceto.
- Ah scellerata, se’ morta!
- Nottola.
- Olà, dinanzi a prìncipi?
- Orazio.
- Ferma là dico.
- Fulgenzio.
- A questa foggia?
- Alberto.
- Barba posticcia?
- Schiavetto.
- Deh, si fermi ciascuno! Signori, questi è mio fratello.
- Orazio.
- Suo fratello?
- Nottola.
- Signori, ascoltisi le sue ragioni e poi voi, signor fratello, in grazia mia (e basta) se le perdoni, perché questo è caso amoroso e ne seguita il matrimonio.
- Orazio.
- Di già, signore, senza che più rinovelli il caso della sorella sua Florinda, l’ha inteso; e in uno è fatto a parte della sua molta generosità e onestà, che non volendo lasciarla invendicata tanto peregrinò, tanto patì e tanto fece. Io solo il colpevole fui, io solo il reo; ma quanto errai fuggendo, nemico da Florinda, morte meritando, ora Florinda seguendo, amante e consorte vero, mi dovrà esser conceduta. E se pur solo con il sangue lavar s’intende questa macchia, il ferro già ignudo hai nella mano e io a’ piedi tuoi mi trovo, il colpo aspettando.
- Facceto.
- Orazio, tanto seco di forza hanno portato le sue poche parole, e questo atto suo così umile, che altro ragionando dir non può questa lingua, se non che errore, con umiltà confessato subito, perdonato sia. Scòrdinsi le offese, i desiderii di vendetta; e l’aver io vestito questo abito con supposito nome, per poter con questo mezo di comico, e comico solo, esser chiamato in tutte le case, e colà dov’io trovava Florinda farne anche dovuto scempio. V’abbraccio, mio signore e cognato, e tu Florinda nella mia grazia rintegro.
- Schiavetto.
- O caro fratello, mille perdoni si concedino a questo mio amoroso fallire.
- Facceto.
- Avrei ben te potuta seguitare, per forza delle ricchezze nostre, con molta gente e con nome diverso da Lelio Fedele, ma che? Ben sapeva che per le osterie ritrovata io non t’avrei, né che per le città tu saresti (come già per Napoli) andata con serve errando, certo essendo che l’errore tuo comportava che sempre da gli occhi del sole, non che de gli uomini, ti fossi andata nascondendo. Onde, per consolarti alcuna fiata pur fra me stimando che di qualche spasso saresti stata col tuo amante vogliosa, terminai con il dolce trattenimento di comedia per ogni castello e città andando, far porre cartelli che dicessero: Oggi Facceto, solo comico, invita a comedie private. E questo non solo per andare in ogni villa, castello e città, ma per entrare in ogni casa di detti luoghi e, colà a caso trovandosi, far quello che di già più non dico, poiché in tutto di già ho obliato.
- Nottola.
- O che stravagante caso, inefetto bisogna esser uomo da bene. Ohimè, che cosa è questo? È la Corte, ch’io vedo dalla lontana? Signori, con licenza, mi s’è mosso il corpo.
- Alberto.
- E non parta caro signore, veniamo ancor noi.
- Nottola.
- Ho un certo freddo, cari signori, pigliatemi tutti nel mezo vostro, e tutti insieme stringetevi.
- Alberto.
- E che? Non impiccieremo del fuoco?
- Nottola.
- Non mi scaldo con fassine quando ho freddo, ma co ’l caldo umano in questa maniera detta loro.