Lo schiavetto/Atto quinto/Scena VIII

Atto quinto - Scena VIII

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Atto quinto - Scena VII Atto quinto - Scena IX


Paggio, Nottola, Rampino, Orazio, Rondone, Schiavetto, Alberto, Fulgenzio, Prudenza

Paggio.
Signori, il signor Orazio è sano e allegro.
Alberto.
Sì? O piglia quello che doveva esser di questi duo muti.
Paggio.
Ventura e’ siedi! Io li ringrazio.
Grillo.
Da’ qua que’ dinari.
Paggio.
Dico che sono miei!
Alberto.
O questa è bella.
Cicala.
Lasciagli star que’ dinari, che sono suoi.
Grillo.
Venivano a me.
Cicala.
Pur a me venivano.
Grillo.
Tu menti.
Paggio.
Menti tu, to’ questo.
Grillo.
A furbo, to’ pur tu.
Paggio.
Signori, mentre che si danno addio, e io vo a porre in governo i dinari.
Alberto.
Eh, eh, eh, come i taciturni sono rimasti più carichi di pugna, che di mancia. Si dettero di forti pugna, e dandosi partirono.
Fulgenzio.
Certo ch’è stata una cosa di spasso. Ma ecco il signore.
Nottola.
Signore Alberto, il signor Orazio non ha male alcuno, eccolo; di più, gli è venuta una così fatta fame, che mangiarebbe un lupo.
Orazio.
O come, caro signor Alberto, come, o cara Prudenza mia, con gioia inusitata ambo vi miro.
Alberto.
Poverino, non sa, non sa. Sappiate, signor Orazio, che tanto il sole il mondo non rallegra all’or che dal notturno orrore lo disgombra, quanto la presenza sua allegrezza pone ne i cori nostri, per la ricevuta sua salute.
Orazio.
Io la ringrazio. E ben da questo risorger mio conoscer si può il merito della mia fede, del mio amore, avendomi lo stesso Amore , la stessa fede tratto da’ morti, solo perché tra i vivi Prudenza mia goder in nodo strettissimo di matrimonio potessi, come appunto questo invitissimo mio signore hammi promesso, fattolo a parte, doppo il risorger mio, dell’amor ch’entrambi si portavamo. Di più, con generosa mano promesso avendomi di suffragare la mia molta nobiltà, in molta calamità caduta.
Nottola.
È verissimo, e così confermando giuriamo.
Prudenza.
Orazio, concedo che per quello che s’aspetta all’amor nostro, per quello che s’aspetta alla generosità di così invitto signore, possa esser quello che dice; ma nego poi, per la parte che a me s’aspetta, ch’esser possa questo, essend’io di Fulgenzio, al presente, consorte.
Orazio.
Così, Fulgenzio, ti insegna l’esser nobilmente nato a tradire l’amico? Procàcciati d’armi, ché or ora teco far quistione intendo.
Fulgenzio.
Se a voi gustoso e lecito fu il burlarmi, quando dietro alle mie spalle con Prudenza parlavate, non ben conosco che in tutto sia indegno l’aver burlato voi, poi che voi questo modo m’insegnaste. Ma poi che di far quistione desiderio avete, cacciate mano, ché ben meco ho dell’armi.
Orazio.
Sì? Caccia mano, difenditi.
Fulgenzio.
Queste sono l’armi che meco porto, per offendervi, o Orazio. Queste chiome d’oro sparse sopra gli omeri di questa che piange a’ piedi vostri, è quella ferza che sferzar vi debbe, in guisa che sforzato siate a far palese il vostro fallo. Ah già ben miro che sostenete i colpi, e che al vivo vi trafiggono, or in pallido, ed or in vermiglio il volto cangiando. Or via, si mova il piede, s’alzi il ferro, s’indirizzi il colpo; così coraggioso eravate innante, e ora così avilito siete? e quali armi contro di voi adopro? una ferza alfine, flagello di fanciulli.
Orazio.
Ahi, che vidi?
Schiavetto.
Senza, o crudo Orazio, che a ragionar si mova questa lingua, ben sai, ben sai, ch’altro accusar non dee se non ch’io sono Florinda e tu Orazio sei. Io quella Florinda che, per troppo teneramente amarti, a termine di tanta calamità son giunta, ch’a pietà di me si move l’impietade istessa. E tu quell’Orazio di cui, per accusar l’infedeltà grande, del silenzio il dio parole oggi trova che dicono: Orazio fra tutti i più disleali amanti è il più disleale. Quella son io, che colà in Napoli ne gli agii maggiori (lassa, che più dirò?), nelle felicità dello stato felicissimo verginale felice vivendo, fiera stella volle che, di te predatore, preda io rimanessi. E (ohimè) quante fiate più felice mi tenni da te amata, che felice Psiche non si tenne, quando degna fu d’esser d’Amore amante! Folle credendomi vie più, che sotto angelica spoglia non si potessero giamai amantare costumi d’orso rabbioso, o di Leon e superbo. Ond’ecco apunto, ch’altro di te non pensando, vigilava le notti, e i giorni digiunando io passava, bastandomi solo che, a gli occhi in ricompensa di sonno, e alle viscere digiuno per compensa di fame, cibo e riposo apportasse loro il vederti una sol volta passeggiatore per le contrade di Florinda e rimirator delle finestre sue. Pur sai, pur sai, che tutta già trasformata ne’ tuoi desideri, da gli sguardi tuoi io pendeva, come pender suole da precettore fanciullo; onde perciò alle tue lettere, a i tuoi favori, con lettere e favori io rispondeva. E tu stessa, chioma incolta, il sai, che forse qui disciolta su ’l petto mi cadi per accusare quante volte dalla fronte io ti recisi e in treccia accolsi, caro essendomi che tempestata di perle e rubini in dono se n’andasse al mio signore, solo per noto fare al crudele che la treccia erano i lacci ond’io (colpa sua) stava prigioniera; le perle tante le lagrime mie, quali in rubini di sangue cangiate si sarebbero, se tosto soccorso dato non avesse all’amor mio fedele. Quella son io, che, rotto ogni freno d’onorato ritegno, sicuro loco t’elessi (troppo pesandomi il vederti languire) dove tu potesti da me côrre quel più, che ragguardevole nel cospetto del sole, render può donna ben nata. E quella (o crudo) alfin son io, che tu lusingando invaghisti, che falseggiando tradisti, che violando uccidesti. Quind’ha che in odio a me medesma fatta, e in disprezzo (poiché cosa non è più vile e biasimevole che donna d’onor priva), elessi te Bireno ingrato di seguitare: ed ecco come, quasi sesso cangiando, abito virile io vesto. Considera or tu, con quanto pianto prima vestii queste membra, che di queste vestimenta io m’appagassi di ricoprirle. Considera tu (e se conoscenza non hai, la pietà te l’impetri), con quanti sospiri le paterne case d’abbandonare elessi. Considera tu, quelle abbandonando alfine, quante volte (ahimè) a quelle la fronte io rivolsi, dir loro potendo a pena addio. Pensa deh, pensa or tu, a quante calamità di lunga e incerta peregrinazione si avventurò donna, che per natura altro conoscer non dee che gli angusti confini della sua casa! Ahi quante volte (o crudo) inaccessibil monte incontrandomi, tutta mi sgomentai, divenni sasso dal piede al capo in rimirarlo, misera creder non potendo di colà su poter portare questa mia vita inferma. Pensa, pensa, come dalla pioggia molle, dalla grandine percossa, dal vento trafitta, da i lampi abbagliata, da i tuoni assorda, dalle tenebre tenebrata, più volte fu la misera peregrina Florinda, la quale, in tanta fiera sventura, il ricovrarsi sotto un’arbore fronzuta fu gran ventura. Pensa, pensa, o spensierato, quante fiate l’ira de’ ladroni, l’ulular de’ lupi, il corso de’ rapidi torrenti, le aricciasse il crine, tremar la facesse dal capo alle piante! Tutto, tutto per te superò alla fine, a tutto generosamente s’offerse, per tutto cercò, per ritrovarti, folle me credendo di ritrovarti, quanto già infido, ora fedele. Ma che? Ahi, mia folle credenza, a pena ti trovo, che lassa me pur sento che, d’altra donna invaghito, più di Florinda non ricordi. Ond’io perciò, dall’acerba passione vinta, e vinta dalla violata fede e dall’onor rapitomi, terminai di levarti la vita. Ma benigno Cielo che ’l tutto vede, e alle cose più disordinate certo ordine concede, fece sì che andò a vòto il mio pensiero, poi che questa parte dell’uccidere a te s’aspetta, e a me dell’essere uccisa. Però eccomi a’ piedi tuoi, se di vita e di mercede mi giudichi non indegna, dammi mercede e vita; e se morta mi vuoi, di’ solo muori, ché tanto è omai per te vicina alla morte questa mia vita, che solo co ’l dir muori sarai felice.
Orazio.
O mia cara Florinda levatevi, ché non a voi, ma sì bene a me questo atto di perdono (ben che indegno di perdono io sia) si conviene. E come non ti poteva io conoscere, se in quel punto, che voi cadeste a’ miei piedi, vidi con l’umiltà vostra abbattuta la superbia mia, palese la vostra fedeltà, nota l’infideltà mia, voi degna di mille vanti, io a parte di mille accuse. Patiste, Florinda, affaticaste, mio bene; ma quanto sudore in lungo peregrinare stillò la vostra fronte. tante lagrime ora da gli occhi io spargo; e quanto disagio già soffristi, tanto ora duro pentimento lacera questo cuore. Ma se vera umiltà, se caldo e acerbo pianto, se vero dolore di commesso fallo ognor trovò mercede, deh la mercede oggi a me non si neghi. Florinda pietade, consorte aìta, donna offesa perdono! Errai, errai no ’l nego; ed errando feci che, dalla mia incostanza, della costanza vostra altrui fosse a parte, e, per la mia ignoranza, del saper vostro altri pur contezza avesse. Or se, per gli errori miei, tanto sagace si dimostrò Florinda, non dovranno quelli più lode che biasimo meritare? Certo sì, che molto merita chi fu cagione che di gran tesoro si venisse a parte.
Alberto.
Cari amanti, non più, ché già tutte le membra mi piangono.
Fulgenzio.
Oh gran forza d’amore, o grande amor di donna.
Nottola.
Da vero principe, che sono tutto tenero come pasta, per la pietà di questi amanti.