Lo schiavetto/Atto quinto/Scena II
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Giovan Battista Andreini - Lo schiavetto (1612)
Atto quinto - Scena II
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Facceto, Solfanello, Succiola
- Facceto.
- Solfanello, che ti pare di questa bella e nobile città di Pesaro, e di questo popolo così cortese e amator di forastieri?
- Solfanello.
- È bellissima questa città certo, e credo che della cosa delle comedie farete molto bene, e in particolar voi, che, solo, fate tutta una comedia; invero che ogn’uno si suol maravigliare. Ma ecco un’osteria, c’ha per insegna una castagna fruttifera. Meser Facceto, che vi pare?
- Facceto.
- Eh? Ogn’uno conforme la sua bizaria si governa. Batti un poco, ché tu dèi essere stracco, dalla porta a qui avendo portata questa valige in ispalla.
- Solfanello.
- Lasciate ch’io la pongo in terra, e or ora batto. Corpo di me, che l’aria dee esser molto sottile in questo Pesaro, perché mi sento le budella che dentro mi mangiano. O dall’osteria? Olà olà rispondete, se non, che con le sassate scoteremo dalla insegna tutte le castagne al sicuro! Olà, olà dich’io.
- Succiola.
- Che domine di picchiare alla sbardellata è cotesto?
- Solfanello.
- Oh? Càzzica, è da Firenze non è oggi, vero monna Pippa gobba?
- Succiola.
- Do’ briccone, e che m’uccelli tu forse, che ti stiaccio il naso, che sie?
- Solfanello.
- Oh? no daddovero. Oh? no al corpo di sampuccio, oh? no al corpo di santanulla! Ne volete vo’ più di questi vostri, oh, oh, oh?
- Succiola.
- Oh? Ti dia!
- Facceto.
- Madonna, datevi pace, perché costui è ’l più bello umore che viva al mondo.
- Succiola.
- Sin a cotest’otta, non mi piace punto, punto. Or che volete voi albergare? Che mestieri è ’l vostro?
- Facceto.
- Di far comedie.
- Succiola.
- Comedie? Oh? Cotesta è bene la mia ventura! E sapete se mi piacciono! E che parte fa cotestui?
- Solfanello.
- Io? Impiccio le candele e le torcie; e per questo mi chiamano Solfanello.
- Succiola.
- Eh? Non è maraviglia, se per accendere le torcie e le candele si chiama cotestui Solfanello, ché pur anch’io per far l’osteria, c’ha impresa l’albore della castagna fruttuosa, mi chiamo monna Succiola.
- Solfanello.
- Ma canchero! Pochi forastieri toccheranno la vostra osteria, e questo perché avete la castagna molto spinosa.
- Succiola.
- Sì, ma le punte sono novelline, che più tosto ti solleticano, che ti punghino! Ma da te, Solfanello, bisogna istar lontano, ché da ogni canto scotti.
- Solfanello.
- Sì, quando sono acceso scotto, ma adesso no. Toccami, e da i capi e nel mezo, e vedrai ch’io non mento.
- Succiola.
- Or sue, se non iscotti, tu puzzi da ogni capo almeno.
- Solfanello.
- Che volete, il Solfanello puzza dal capo e Succiola nel mezo.
- Succiola.
- O che tristo, dove domine è andato a quest’otta a ficcare il naso. Ma ascoltatemi, né andian dietro alle novelle. Mi volete vo’ voi per fare una ruffiana nella comedia?
- Solfanello.
- Sì, ma bisogna sfrisarti.
- Succiola.
- O nato di becco, guata come tu parli ve’, ch’i’ ti darò d’un zoccolo nel capo, e ti coglieroe.
- Solfanello.
- O via, che burlo, gatta inzoccolata!
- Succiola.
- E pur Fiesoli.
- Facceto.
- O che spasso.
- Succiola.
- Non mi fare instizzire, perché andrà male, ve’?
- Solfanello.
- Burlo, burlo. Potta di me, la Succiola s’era bene riscaldata, bastava ora che io vi accostasse il solfanello, ed era fatto il becco dell’oca.
- Succiola.
- O che forca, sallo dir meglio? Or sue, andianne ch’i’ ti voglio albergare, perché i’ non sono quella capassonaccia che tu t’andavi immaginando. Entrianne.
- Facceto.
- O che cara Succiolina.
- Solfanello.
- O che gentil Succiolaccia.
- Succiola.
- Diavolo accòrdela, oh? Vo’ mi tritellate così il nome! Io non sono né Succiolina, né Succiolaccia, ma la Succiuluccietta, figlia della Succiulucciotta.
- Facceto.
- O bene, o bene, o bene, andiamo! Voi siete una Succiola d’oro.
- Succiola.
- Non dite così, càzzica, che i cerchieri non mi martellassero tutta la Succiola.
- Facceto.
- O che furbetta, entriamo.
- Succiola.
- Andianne.