Levate il guardo al vostro albergo eterno

Giovan Battista Marino

XVII secolo Indice:Marino Poesie varie (1913).djvu Letteratura II. Eraclito e Democrito Intestazione 27 giugno 2023 100% Da definire

Che curi piú la vita? Cingetemi la fronte
Questo testo fa parte della raccolta Poesie varie (Marino)/Le pitture e le sculture/I ritratti


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ii

     Levate il guardo al vostro albergo eterno,
anime curve e ’n questo abisso immerse,
che nome ha «mondo» ed è piú tosto inferno.
     Oh cecitá mortal, menti perverse!
s’a la luce del ciel non vi volgete,
ben a gran torto il Sol gli occhi v’aperse.
     Deh! come prigioniero entro una rete,
che tante morti in poca vita aduna,
può l’uom, sempre in travaglio, aver quiete?
     Soggiace il poverel fin da la cuna,
agitato dal piè de la nutrice,
a l’agitazion de la fortuna.

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     Nato in un punto istesso ed infelice,
va lagrimando le miserie estreme,
che l’umana natura gli predice;
     e ne’ vagiti suoi sospira e geme
la lunga serie de’ futuri affanni,
che con tal tronco han la radice insieme.
     Che gravi incarchi ne’ piú debil’anni,
mentre vaneggia e pargoleggia infante,
a mille rischi esposto, a mille danni!
     Tenero sovra il suolo e vacillante
stampa dubbie vestigia, e non ben pote
senza le braccia altrui fermar le piante.
     Le membra avinte e d’ogni forza ha vòte,
e de’ vasi materni il cibo chiede
con lingua balba e mal distinte note.
     Cresciuto il senno e stabilito il piede,
in piú perfetta etá, di quanti mali
fatto gioco e bersaglio ognor si vede?
     Ecco, con duri e velenosi strali
incominciando a saettarlo Amore,
gli fa piaghe pestifere e mortali.
     Vien rabbia, gelosia, speme e timore
con l’altre oscure passion nemiche,
anzi furie tiranniche del core.
     Succedono i disagi e le fatiche,
degli ingordi desir l’avide brame,
che, quanto acquistan piú, piú son mendíche:
     de l’òr la sete e de l’onor la fame,
de’ sozzi morbi la perpetua guerra,
e del giogo servil l’aspro legame.
     Chi può dir poi gl’incommodi che serra
de la pigra vecchiezza il peso greve,
che giá mira il sepolcro e pende a terra?
     De’ dolci dí la primavera è breve,
tornan freddi gli spirti, i corpi lassi;
dove spuntava il fior, fiocca la neve.

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     Tardi il tremulo piè distende i passi,
né merlo intorno ha piú, che ben sussista,
la corona de’ denti, e rara fassi.
     Solca ruga senil la guancia trista,
infossan gli occhi e fosca nebbia involve
d’importuna caligine la vista.
     Alfin pur si distempra e si dissolve
questa fragil testura d’elementi,
e ritorna la carne in trita polve.
     Fermate il passo, o peregrin dolenti,
voi che quaggiú cercate ombra di bene,
né trovate giá mai se non tormenti;
     e conchiudete pur: che ben conviene
che ’n un mar la cui fede è tanto infida,
fra tante or liete or dolorose scene,
     l’un filosofo pianga e l’altro rida.