Lettere di Winckelmann/Articolo VI
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A r t i c o l o VI.
Jeri a otto1 tornai da Napoli. A poco a poco vi anderò comunicando le mie osservazioni; ed ecco pertanto il ragguaglio di quattro pitture antiche. Tra le ultime scoperte d’Ercolano tengono il primato quattro pitture a tempera, le quali si lasciano addietro tutte le altre; e se non fossero comparse quelle di Roma, di cui ho dato ragguaglio, oserei dire, che quelle sole possono dare qualche idea di quelle opere de’ pittori greci, delle quali tante meraviglie decantano gli autori antichi2. Esse non sono legate dal muro in Ercolano, ma trovate già staccate, e appoggiate in una camera, messe insieme due a due dalla parte dell’intonaco, in maniera, che la parte dipinta restava in fuori. Da ciò si manifesta, che sono venute di fuori segate forse da qualche fabbrica in Grecia, o nella Magna Grecia, e cavate recentemente dalle casse, entro le quali erano venute, per metterle poi in opera, e per incastrarle in qualche luogo3. I cavatori, sgombrata quasi affatto quella stanza, rimanendovi ancora terreno, nello scalzarlo dal muro, diedero colla zappa su qualche sodo, e replicando le botte ne ruppero due, cioè la terza, e la quarta, le quali per ciò hanno patito. Tutte quattro hanno il loro orlo esteriore, e interiore: l’esteriore consiste in tre fasce, o sieno liste di bianco, quella in mezzo pavonazza, la terza verde, lineata intorno di scuro; e tutte tre insieme sono di larghezza della punta del dito mignolo. L’orlo di dentro è bianco, e più largo delle tre liste insieme, cioè un buon dito di larghezza. Le figure sono di due palmi, e due once di passetto romano. Il chiaroscuro è di una gran maniera maestrevole; gli ombreggiamenti sono messi con grandi macchie in dolce armonia, e degradazione, e sopra quelle tratteggiati. Le ho attentamente considerate per ore intere; e in più di dieci volte, che ho veduto il museo, non mi pare di aver tralasciato cosa, che meriti di essere notata. La descrizione, che io ne darò, sarà più da pittore, che da antiquario: l’uno, e l’altro ha da star attaccato il più delle volte a certe minuzie, che scappano agli occhi di quelli, che vedono, e non osservano. Ma siccome anche il pelo fa ombra, il pittore, trattandosi di soggetti non triti, reitera non meno imbrogliato nelle cose di poco rilievo in apparenza, che nelle principali, se voglia osservare rigorosamente i costumi degli antichi; e perciò di poche opere abbiamo un dettaglio scientifico, e da conoscitore.
Il primo quadro è di quattro figure di donne; la principale, col volto di faccia, sta seduta, alzando colla mano destra il pallio, o sia peplo, buttatole sopra l’occipite. Questo panno è pavonazzo con un orlo verde di larghezza di un dito; la tonaca è di colore incarnato. Tiene la mano sinistra appoggiata sopra la spalla di una bellissima vergine, che si vede di profilo, e le sta accanto, reggendosi il mento con la mano delira. L’altra tiene il piede sopra uno scabello in segno di dignità. Accanto ad essa sta una bellissima figura voltata di faccia, che si fa acconciare il capo: appoggia la mano sinistra al seno; e la destra, che pende in giù, pare in atto di voler tartare un clavicembalo. La di lei tonaca bianca è con maniche strette, che le giungono sino al carpo della mano. Il pallio è pavonazzo con un orlo ricamato di larghezza d’un pollice. La donna, che acconcia, e che sta un poco più alta, è voltata di profilo, in modo però, che le palpebre dell’altr’occhio compariscono. Si legge l’attenzione sua da acconciatrice nell’occhio, e nelle labbra, che sono compresse. Giù a’ piedi sta un tripode, o tavolino a tre piedi, la di cui tavola è scorniciata con eleganza: sopra vi è una cassettina bianca con frondi d’alloro sparse, e accanto si vede una benda pavonazza, forse per circondarne la chioma dell’altra donna, dopo che farà acconciata, Sotto il tavolino sta un gran bel vaso di vetro, conforme lo dimostra la trasparenza, ed il colore.
Il secondo quadro rappresenta un poeta tragico sbarbato, sedente, e vestito di bianco con maniche strette, che gli arrivano sino al carpo delle mani. Sotto il petto gli stringe l’abito una cintura gialla, e larga quanto il dito mignolo. Colla delira tiene un’asta alzata, colla sinistra il parazonio, o sia spada corta messa per traverso sopra le cosce coperte di un panno rosso, ma di color cangiante, il quale pende in giù, e copre la sedia. Il cingolo della spada è verde. Una donna gli volta la schiena inginocchiata col piede destro avanti ad una maschera tragica ornata di alta acconciatura di chiome, chiamata ὄγκος, e messa sopra un imbasamento. La figura, che scrive con un pennello nella parte superiore di quest’imbasamento, pare a me la Musa tragica Melpomene: scrive probabilmente il nome d’una tragedia, ma non si vede altro, che tracce di carattere. La spalla sinistra è ignuda, e la tonaca gialla. Tiene i capelli legati sul vertice, come usavano le vergini a distinzione delle donne maritate, le quali portavano sempre i capelli legati sotto l’occipite. La maschera sta come in una cassetta, le di cui tavole laterali sono scorniciate, e la cassetta è coperta di panno turchino. Cascano all’ingiù fettucce bianche con due cordoncini attaccati a’ capi di esse. Dietro all’imbasamento sta un uomo in piedi colle mani appoggiate ad un’asta. Il tragico ha la testa voltata alla Musa, che scrive4.
Il terzo quadro è di due figure di uomo ignude con un cavallo. La prima voltata di faccia è sedente, e par che rappresenti Achille, di colore acceso, pieno di fierezza, e attento al racconto dell’altra figura. Il sedile della sedia è coperto di un panno rosso, decente per un guerriero, ed era il solito colore degli Spartani in guerra: questo gli copre nello stesso tempo la coscia destra, sulla quale egli posa la destra mano. Rosso è anche il pallio, che gli cade giù dietro le spalle. I braccioli della sedia s’inalzano su sfingi colcate sopra il sedile in modo, che i braccioli sono alti assai; e sopra il sinistro d’essi posa il gomito. Ad un piede della sedia sta inclinato il parazonio, lungo sei once, con un cingolo verde attaccato a due anelli. L’uomo ignudo, che gli sta accanto, s’appoggia sopra un bastone posto sotto l’ascella del braccio destro, su cui ha messa la mano sinistra, la quale resta coperta sotto il braccio destro, che vi posa, tenendo alzata la detta mano a modo di chi racconta, e una gamba sopra l’altra. Questa figura è mancante di testa, come anche il cavallo.
Il quarto quadro è di cinque figure. La prima è una donna sedente coronata d’ellera, e di fiori, che tiene nella mano destra un volume svoltato. Le scarpe sono gialle, come sono le scarpe di quella, che si fa acconciare il capo nel primo quadro. La donna, che le sta incontro, suona colla sinistra la lira alta quattro once e mezza, e tiene nella sinistra lo strumento da accordare le corde, fatto con due uncini5, conforme si vede più chiaro in uno di bronzo nel museo. La lira ha sette bischeri6, e in conseguenza altrettante corde. In mezzo a queste due figure siede un tibicine, che suona due tibie pari, o diritte tutte due, imboccate per mezzo d’una benda chiamata στόμιον, colla quale è legata la bocca, per meglio moderare, e distribuire il fiato7. Queste tibie sono composte di più pezzi, secondo che si vede in tanti pezzi di tibie d’osso nel museo, che sono senza incastro, o intacco, e non potevano unirsi, se non per mezzo d’un’anima di metallo, o forse anche di legno bucato, intorno a cui restavano infilzati i pezzi di tibia: e in fatti in uno di quelli pezzi è rimasto il legno attaccato, e impietrito. Dietro alla prima figura stanno due uomini coronati d’ellera; la figura più in mori delle altre è rivolta in un pallio di colore verdemare. Vi prego di non comunicare quella descrizione, che alle loro Altezze Reali, ec.
Note
- ↑ La lettera è del 17. di febraro 1761.
- ↑ Winkelmann le ha descritte anche nella Storia, Tom. I. pag. 61. segg.
- ↑ Si veda al luogo citato, ove pensa, che le tagliassero dal muro gli stessi Ercolanesi dopo il disastro del loro paese per portarle via.
- ↑ Quella pittura fu recata dagli Accademici Ercolanesi nel Tomo IV. di quelle pitture Tavola 41., e riconobbero nel tragico il poeta Eschilo. Ma il nostro Winkelmann non ne fu persuaso, giacché nel Tomo iI, de’ Monumenti ant. Par. iiI. c. 5. pag. 223. accenna le sue difficoltà desunte dai capelli, che mancavano ad Eschilo, e dalla barba, che dovrebbe avere, [ e le ripete nella Storia, Tom. iI. pag. 62.
- ↑ Detto dai Greci χορδοτόνον chordotonon. Polluce lib. 4. cap. 9. segm. 62.
- ↑ Si chiamavano dai Greci κόλλοπες Platone De republ. lib. 7. op. Tom. iI. p. 531. B.: Τοὺς ταῖς χορδαῖς πράγματα παρέχοντας, καὶ βασανίζοντας, ἐπὶ τῶν κολλόπων στρεβλοῦντας. Qui fidibus assidue facessunt negotium, & explorant, claviculos subinde contorquendo, e Polluce loc. cit.
- ↑ Vedi Tom. I. p. 360., Tom. iI. p. 64., e Bulengero De theatr. lib. 2. cap. 24.