Lettere d'una viaggiatrice/Viaggio a Cosmopoli/Eleonora Duse
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Nizza, marzo....
Un giardino di nobili palmizi e di umili bianchi ciclamini, circonda, innanzi al mare, l’Hôtel West End, dove Eleonora Duse dimora da circa quindici giorni: e il piccolo appartamento separato, ove ella trascorre la sua vita di pensiero, di contemplazione, di lettura, di lavoro, è zeppo di queste meravigliose violette di Nizza, la cui fragranza rimarrà nel cervello, nella memoria, e sarà, domani, il brivido della nostalgia per i lontani. Dietro alcuni grossi fasci di queste violette, io ho trovato, sul caminetto, un ritratto di Adriana Lecouvreur, una fotografia tolta da un ritratto autentico, della grande e infelice attrice: ella vi è rappresentata, in un vestito di fantasia, tenendo nelle mani il fatale cofanetto, donde verrà la sua morte: e nella bella testa dai capelli singolarmente acconciati, negli occhi levati e spalancati, sembra già riluca il sogno tragico dell’ora estrema. Questo ritratto messo lì, semplicemente, con qualche fiore innanzi, è il solo ricordo apparente della grande vittoria che Eleonora Duse, non sono che venti giorni, ebbe nel primo teatro di Francia, innanzi al primo pubblico del mondo. E null’altro si vede, né la veste magnifica né il magnifico manto che Worth copiò da un ritratto del tempo, né i gioielli copiati da quelli che si portavano, quando Adriana Lecouvreur visse, trionfò, amò e morì, né uno dei giornali che parlarono di questo stupefacente successo, con parole che fanno impallidire d’emozione coloro che amano teneramente la grande artista: nulla di ciò. La fragile donna come tante altre volte, superando la fatica lunga del suo giro in Italia, superando il resto di una influenza che l’aveva tanto tormentata a Roma e a Firenze, è andata, anche adesso, a un cimento terribile, forte della sua anima fiammeggiante, forte della sua arte impeccabile, a un cimento così terribile che, forse, solo dopo, lei e i suoi amici hanno compreso. Recitare in italiano, in un teatro francese, dopo una commedia francese, prima di un’altra commedia francese, e recitare quell’Adrienne Lecouvrear che ebbe alla Commedia francese le più illustri interpreti, fra cui la bellissima e intellettuale Bartet, e far questo, così, semplicemente, il giorno seguente a un viaggio di venti ore ed essere acclamata, sei volte al proscenio, dopo questo rischio tremendo, e partirsene subito, senza veder nessuno, venir qui, per lavorare di nuovo, quieta, pensosa e sorridente, come se la sua esistenza non fosse stata attraversata dalla battaglia più singolare, come se ella non avesse toccato la cima più pericolosa e più inebbriante! Non vi è che questa silenziosa e gracile donna, arsa dall’anima più energica che io abbia mai conosciuto, che sia capace di farlo. Credete voi che ella parli volentieri di questo passo supremo onde il suo nome, la sua fama, la sua arte escono più puri e più fulgidi? No. Ella non ne parla. Se un affettuoso la interroga, ella risponde qualche monosillabo: si turba: tace. Però, chi conosce la profondità del suo spirito, sa bene che ella porta in sé una novella ragione di vita interiore, sa che il segreto d’arte, suo, è diventato più intenso e più consolatore.
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Come è bizzarro questo pubblico di Cosmopoli che qui si affolla, a ognuna di queste sei od otto rappresentazioni che la Duse dà qui! Queste signore, queste donne, queste ragazze di tutte le nazioni, questi cittadini di ogni paese, molte di esse, molti di essi, la udirono laggiù, lontano, a Pietroburgo, a Vienna, a Londra, a New-York, cinque anni fa, due anni fa: e la impressione indimenticabile non essendosi potuto cancellare, in loro, essi vengono a riprendere i frammenti delle loro estetiche sensazioni, e a rifarne un mosaico. Molti, non l’hanno udita mai e questa dimora di Nizza così simpatica, così leggiadra, così adatta a rifare l’anima e il corpo, sembra loro più attraente, poiché in qualche sera, in qualche mattinata di domenica, essi possono avere la rivelazione di una creatura palpitante di vita, che si agita sulla scena, come nella sua stanza e che dice le parole vere del dolore e della gioia. E tutti gli altri, infine, di questa Cosmopoli, ci vanno per snobismo, snobismo della nobiltà, poiché le poltrone e i palchi sono occupati dalla più alta società: snobismo del denaro, perchè costa molto l’andarvi; snobismo della consuetudine, perchè tutti vi vanno. E, così, in quella sala vasta e non mancante di eleganza, Cosmopoli manda tutto il suo blasone, tutti i suoi cappelli chiari, tutti i suoi brillanti cosmopolitani, tutti i suoi volti così varii, così dissimili, così mai visti, e un pubblico dei più strani si forma, appartenente alle classi più diverse, con anime le più differenti, e, quindi le più difficili ad amalgamare e a trascinar seco. Fra la folla delle duchesse francesi, delle ladies inglesi, delle principesse russe e delle arciduchesse austriache, io ho visto, ieri, una signora indiana, vestita del costume indiano, una specie di tunica rossa, col manto rosso ricamato d’oro, sulla testa, una donna piccola e snella, con un viso color di uliva! Questo pubblico si sventola — pelliccie e ventagli, vestiti bianchi e boa di piume, ecco l’unione costante — chiacchiera a bassa voce, flirta un poco, sorride da un posto all’altro, esce negli intervalli nel grande atrio che è un giardino d’inverno tutto fiorito, passeggia, discorre, rientra al suono del campanello: ma, di atto in atto, il suo spirito multanime si va fondendo, le sue varie crescenti emozioni si riuniscono in una emozione identica, ma le sue mani corrette si levano ad applaudire vivamente, ma quando la seconda mistress Tanqueray dice le ultime parole che chiudono la sua vita insaziata di purezza e d’idealità, ma quando Margherita Gauthier lascia i suoi poveri fiori sulla tavola della sua casa di campagna, dove fu felice troppo, e quasi non può fisicamente staccarsi delle braccia del suo amante, allora Cosmopoli ha un cuore solo e i fazzoletti ove tutte le corone della terra sono ricamati anche le corone d’immaginazione delle demi-mondaines, asciugano le lacrime di questi occhi cosmopoliti, incapaci di trattenere le lacrime.
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Ogni tanto, in questo appartamento piccolo, odoroso di violette, arriva un gran fascio di lilla bianchi, legati da un nastro bianco: arriva un gran fascio di rose così belle, che sembrano artificiali: sono queste signore, queste straniere che, in una mattinata di ammirazione, inviano a Eleonora Duse l’omaggio floreale di Nizza. Ella riceve tanti fiori, dalle donne! E, ogni tanto, una di queste dame di Cosmopoli viene a trovarla, lady inglese o contessa austriaca, granduchessa tedesca o marquise francese: qualcuna parte, qualcuna arriva, e il silenzio del salotto sente le diverse favelle con cui Cosmopoli dice il suo tranquillo entusiasmo, per la Duse. Talune l’hanno conosciuta, altrove, nelle sue grandi peregrinazioni, all’estero: talune colgono questi giorni di primavera, in questo delizioso paese, per conoscerla. Ella, come sempre, non prende parte a balli, a circoli, a raouts, nel suo temperamento schivo del mondo esteriore, nel suo desiderio di pace: ella fa o rende qualche visita, così, a queste donne che sanno tanto bene ammirarla. Spesso ella esce, in grandi passeggiate al sole: ma, per lo più, nessuno la riconosce col suo massimo piacere. Solo, l’altro giorno, noi eravamo con lei in giardino, Francesco Paolo Tosti, sua moglie ed io, a fare le lucertole al sole: la battaglia dei fiori cominciò, ed uscimmo sulla via, sulle sedie del marciapiede, e tutti ci facemmo trasportare da quella battaglia di fiori tanto cortese, tanto gentile, e finimmo per essere alquanto chiassosi, come tutti gli italiani sono. Due o tre carrozze, piene di signore, riconobbero la Duse, e le gittaron tanti fiori da coprirla, da formarle un’aiuola, intorno. In una, una graziosissima giovinetta bionda, sotto un cappellino bianco, prese due mazzolini di violette e li baciò, prima di gettarglieli, e gettandoglieli, le disse: Amata!