Lettere (Sarpi)/Vol. II/218
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CCXVIII. — Al signor De l’Isle Groslot.1
In questi giorni passati, vedendo di non aver lettere di V.S., ho congetturato quello che io veggo esser avvenuto infatti; cioè ch’Ella per indisposizione fosse stata impedita dallo scrivere. Coteste replicate così frequenti di gotta, da quali Ella è assalita, mostrano ch’Ella affatica troppo, massime l’animo, il quale è necessario che riposi, per dare insieme riposo al corpo. Lo sforzo ch’Ella ha fatto di mettersi nel negozio, appunto nel tempo quando era assalita dai dolori violenti, farà ben quello ch’io temo, ch’Ella ne sentirà qualche effetto: e siccome, attesa l’importanza degl’affari in che s’è implicata, non posso se non commendare la sua risoluzione nell’anteporre la pubblica utilità alle proprie necessità, così io non vorrei ch’Ella s’accostumasse, ma che prima governando la sua sanità, piuttosto si rendesse abile a servir il pubblico più lungamente.
L’opera fatta da lei e dai colleghi è così onorevole come potesse succedere, e si vede che Dio ha benedetta la loro impresa, poichè è succeduta con tanta prestezza. Io pronostico frutti migliori di quello che si poteva sperare; perchè i modi degli avversari porgeranno occasione di restringersi maggiormente in perfetta e real riunione. Io so che il re di Francia morto ha usato tutto il suo sapere e arti per seminar diffidenze,2 e credo che da questo abbiano origine molte delle cose passate tra i Riformati; e piuttosto mi maraviglio che non siano state maggiori. Certamente si deve credere che la riunione successa al presente, sia per volontà divina, inviata a qualche servizio e gloria sua, come la prego che sia. Ma la dichiarazione regia che V.S. mi manda, mi pare che sia appunto una di quelle medicine che insieme fanno il male maggiore, e mostrano l’insufficienza del medico. Mi pare un artifizio di scuola la distinzione di chiamarsi ben servito dall’universale, e condannare i particolari. Non ho veduto più usar simili artifizi in Francia; ma ben si vede che insieme con l’affezione spagnuola, si apprende anco il modo di procedere.
Qui in Italia non abbiamo cosa nuova, se non un gran disgusto e contenzione tra i duchi di Mantova e di Parma.3 Se fossero potenti, ovvero se non temessero i più potenti, cioè gli Spagnuoli, sarebbero passati così innanzi, che verrebbero alle armi. Senza dubbio alcuno, ciò non sarà, perchè per Spagna non fa aver moto in Italia al presente.
La settimana passata uscì per tutta Roma una nuova dal palazzo papale, che al pontefice era stata resa una lettera del duca di Buglione,4 la quale egli non aveva voluto ricevere per esser di eretico, ma l’aveva mandata all’Inquisizione; dove fu letta. In quella si diceva, che nel suo viaggio fatto in Inghilterra, aveva scoperto una grandissima inclinazione di quel re e del regno al ritornare alla religione romana; e che, per effettuar con prestezza e facilità così buona opera, non vi era miglior mezzo, che il matrimonio del principe di Galles con la sorella del granduca. Però confortava sua santità ad adoperarsi per la effettuazione. Siccome non credo che l’inclinazione suddetta vi sia, nè che il duca di Buglione abbia scritto, così accerto V.S. che per Roma è stata affermato dai principali ministri pontificii. Che mistero sia qua sotto occulto, non mi posso per ancora immaginarlo.
In questi giorni passati si è dubitato che potesse nascere qualche rottura tra questa Repubblica e l’arciduca Ferdinando di Austria, perchè alcuni suoi sudditi erano sbarcati nell’isola di Veggia,5 e avevano fatto prigione il conte di quell’isola, che si ritrovava sopra un porto per negozi pubblici; per la quale ingiuria, erano state mandate quindici galere, rinforzate con buon numero di soldati, da’ quali sbarcati s’erano fatti molti atti ostili nei luoghi arciducali. Adesso viene avviso che il Conte di Veggia è stato restituito nel medesimo luogo dove fu preso; per il che ogni cosa s’accomoderà. Tuttavia cresce la poco buona intelligenza tra la Repubblica e il papa, ma non produrrà effetti di rottura, perchè ogni uno ama l’ozio.
L’ambasciatore in Roma scrive al Principe, aver scoperto che in Roma si tenga stretta trattazione contro la vita mia.6 Non so ancora niente di particolare; ma sarà quello che piacerà a Dio, senza il voler del quale i disegni umani riescono vani.
Poichè V.S. è stata in Parigi, io prendo ardire di pregarla di soddisfare ad una mia curiosità, la quale volendo io adempire e avendo parlato con diversi, ho trovato la relazione tanto diversa, quanto il numero delle persone. Da lei spero d’intendere la verità; vale a dire se il re di Francia mostra capacità, per quanto la età comporta, e se conosce i difetti della regina.7 Mi maraviglio che non sento più parlar de’ Gesuiti di costì. È possibile che siano quieti? Se così è, riposano per ingagliardirsi a fare qualche maggior male. Prego Dio che attraversi i loro cattivi disegni. Al quale anco raccomando V.S., e le bacio la mano, salutandola per nome degli amici, il signor Molino e padre Fulgenzio.
- Di Venezia, il dì 11 settembre 1612.
Note
- ↑ Stampata nella raccolta di Ginevra, pag. 492.
- ↑ Ecco una testimonianza che non farebbe molto onore alla tanto decantata lealtà del grande Enrico di Francia; e insieme una prova che nessun reggitore di popoli può tenersi interamente netto da quelle volpine arti a cui si dà nome di ragion di stato.
- ↑ Per cagione della congiura ordita contro il secondo di essi, come in più d’una delle Lettere precedenti, e che credevasi promossa dal duca di Mantova.
- ↑ Enrico de la Tour d’Auvergne, duca di Bouillon, dopo riconciliatosi con la corte, era stato spedito in Inghilterra per notificare a quel re il matrimonio di Luigi XIII colla infanta di Spagna.
- ↑ Così, per pronunzia venezianesca, invece di Veglia.
- ↑ È da tenersi conto della notizia data, come direbbesi, in via diplomatica. E vedasi anche la Lettera che segue.
- ↑ Questo era assai facile, e presto gli eventi il dimostrarono. Quanto all’altra cosa, difficile in ogni tempo ed a tutti, la storia è là per farne testimonianza.