Lettere (Sarpi)/Vol. I/Fra Paolo Sarpi/II

II.

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Fra Paolo Sarpi - I Fra Paolo Sarpi - III
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II.


Machiavello è scrittore pieno di vigoría e di senso; nelle sue parole gravi ed eloquenti scorre la vita; par di udire le sentenze di un antico Romano, sdegnoso di esser nato in una generazione troppo minore all’animo suo: Sarpi è pieno di precisione e di aggiustatezza senz’arte; o l’arte non pare, perchè altro non è che lo studio di pensare e parlare ordinato, chiaro, distinto. Il Sarpi ha lo stile matematico: rarissimo pregio, e che non trovi che in pochi straordinari ingegni, come Giulio Cesare e Biagio Pascal. Lo stile matematico tanto si differenzia dallo stile ornato, dove l’immaginazione aiuta l’intendimento; quanto è lontano dallo stile scarno e povero, che dà l’astratto, ma non può informare di vita e di movimento dialettico il concreto, e quando [p. vi modifica]racconta non fa meditare. L’essenza dello stile matematico sta nel presentare chiari, evidenti, finiti i concetti secondo la genesi e lo svolgimento loro, senz’aiuto, o poco, d’immagini e di colori; e dove han luogo gli affetti, hanno a nascere anzi dalla grandezza e dalla lor verità pôrta innanzi agli occhi dell’intelletto, che dall’arte o dallo studio dello scrittore. Per vedere che differenza sia tra lo stile matematico e l’ornato e lo scarno, poni a raffronto di Pascal l’eloquentissimo Bossuet o il buon Nicole; e forse troverai più metafore e tropi anco in quest’ultimo che in Pascal, e anche in Bossuet qualche volta, con lo splendore dell’eloquenza che abbaglia, l’à peu près; ma in Pascal non mai, che dice sempre quel che vuol dire e quando l’ha a dire. L’integrità del concetto, il lucido ordine e la precisione delle parole fanno lo stile matematico. Per l’ultimo rispetto, il Sarpi è inferiore agli altri due che ho mentovati, e nell’Epistole più assai che nella Storia. Giulio Cesare ha una lingua scultoria, o vogliamo dire di cose, com’era la latina, e racconta con essa grandissime imprese. Biagio Pascal avea la francese a maneggiare, lingua cioè tutta fissata e netta. Il Sarpi, al contrario, non poteva adoperare una lingua sua propria, chè agli studi letterari poco avea atteso; ma mutava nella forma italiana corrente, o in un latino zeppo di scolasticismi, il suo dialetto natío: come altresì faceva il Bruno, i cui scritti arieggiano di napoletano, anche nelle più sublimi meditazioni filosofiche. Pur crediamo che la perspicuità [p. vii modifica]del Sarpi, rilevata spesse volte nelle Lettere, dalla vivezza de’ proverbi, o di sentenze aforistiche, si abbia a studiare quasi quanto l’energia del Machiavello dagli amatori delle buone lettere italiane, che spigoleranno anche ne’ volumi di Bruno, di Campanella e di Vico, se, come è fatta la patria una, così vorranno fare una e certa e determinata la lingua ed acconcia ad ogni subietto. Gl’Italiani insino a qui non hanno avuto una lingua una (e intendiamo di dire le cui parole corressero per tutto, e avessero per tutti gli stessi significati), perchè non aveano una patria; e quindi veniva la preminenza de’ Toscani, perchè più liberi e civili, e più abbondevoli di scrittori. Scrittore superiore al Sarpi nel pregio dello stile matematico, abbiamo il Galileo, e dalle opere sue si potrebbero ricavarne i più eccellenti esempli. Che se Galileo avesse potuto scrivere di logica e di metodo, come avea in animo, noi avremmo avuto il nostro Bacone e il nostro Cartesio a que’ giorni. Ma la mercè de’ frati e de’ filosofi in libris non potè. Anche il Sarpi lungamente meditò su le morali e su le filosofiche discipline, e per fermo metodicamente filosofava un intelletto sì chiaro, e nelle più profonde latebre dell’anima una coscienza sì cristiana sapea penetrare; ma l’Italia, fatta dalle sue sventure incuriosa ed inerte, non ha saputo cavarne profitto. A dir meglio, non ha potuto. Dopo la scuola politica di Machiavello e di Guicciardini, notomisti e fisiologisti delle città e degli umori che vi fermentano, e delle passioni e delle nature de’ [p. viii modifica]cittadini, l’acume della sperienza psicologica dovea penetrare ne’ costumi e ne’ caratteri degli uomini in tutte le relazioni sociali. Ma la casuistica de’ frati impedì alla scienza dell’uomo di germogliare in questo ferace terreno. Non avemmo nè i Montaigne nè i Pascal nè i Labruyère; e parve poi un gran che, che Pietro Verri e Gasparo Gozzi si dessero a imitare, magna vestigia prementes, gli Addison e gli Steele.