Lettere (Campanella)/XXXIII. A Galileo
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XXXIII
A Galileo
Lo esorta ad occuparsi d’astronomia, e difende, impedito
di dargli la nativitá, l’astrologia.
Al signor Galileo Galilei.
Tutti filosofi del mondo pendeno ogge dalla penna di Vostra Signoria, perch’in vero non si può filosofare senza uno vero accertato sistema della costruzione de’ mondi, quale da lei aspettiamo; e giá tutte le cose son poste in dubbio, tanto che non sapemo s’il parlare è parlare.
Assai mi duole, come li scrissi questa está passata, che s’è posta a trattar delle cose galleggianti etc., ed ha scoverto tutto atomi, e niente altro piú che relazioni trovarsi etc., e molte proposizioni che non può assicurarle e dir che fosser vere, e molte che non si pònno sostenere cosí facilmente, talché ha dato manica a’ nemici di negar tutte le cose celesti che Vostra Signoria ci addita. Io scrissi Quattro articoli sopra quel discorso ed in molte cose semo d’accordo: e che tutti li corpi vadino al centro del proprio sistema, in quanto corpi, io dico con Vostra Signoria, ma non in quanto tali, che la pianta naturalmente cresce in su etc., e ’l fuoco gitta i monti per salire, tantum abest che desideri star sotto o sia espulso, mentre espelle per salire etc. O Dio, qualche peccato fu questo, per umiliar la immensa superbia in che Vostra Signoria potea sormontare scoprendo a’ mortali tante gran cose tanto felicemente. Però vorrei che pigli questo da Dio, e ci vada scoprendo li teatri e scene nelle quali rappresenta il Senno eterno tanti gran giochi di rote sopra ruote.
Io fo la nova Teologia dove mostro che la scrittura sacra e li rabbini e piú antichi, tutti, sono di questa opinione; giá sono al quarto libro. Vostra Signoria armi lo stile di perfetta matematica e lasci li atomi per dopoi etc.; e scriva nel principio che questa filosofia è d’Italia, da Filolao e Timeo in parte, e che Copernico la rubbò da’ nostri predetti e da Francesco Ferrarese suo maestro, perch’è gran vergogna che ci vincan d’intelletto le nazioni che noi avemo di selvagge fatto domestiche. Io sepolto fo quanto un vivo per Vostra Signoria e per l’onor commune. Per amor di Dio, lasci ogni faccenda d’altri scritti, e solo a questa attenda, che non sa se morirá dimane, etc.
Per le sue infirmitá io m’offersi a quel che posso: dissi che mi scriva l’istoria di quelle e mi dia la sua nativitá, e non l’ha fatto. Non sprezzi Vostra Signoria gli avvisi d’amici, perché non omnia possumus omnes. Anassagora vedea le stelle e non lo fosso. Il principe nostro dice che per lui la chiese a Vostra Signoria, e che non vol darla dicendo che non ci crede. Io stupisco: perché se Vostra Signoria non ci crede, perché nell’epistola dice al granduca che Giove in sua genitura li diede etc.? Dunque l’ha burlato. Absit. Non è licito a Vostra Signoria, come scrittor, servirsi d’opinioni false credute dal solo volgo etc. Pur io son certo ch’è piena di fallacie questa dottrina, ma ci stan dentro pur cose divinissime; né si può negare che tanti sistemi, reflettendo le luci l’un all’altro, non faccino varietá ordinaria non solo a’ corpi grandi, ma anche alli piccioli: e si vede l’eliotropio e lupino e salce e tiglio aver simpatie col moto della latitudine o longitudine; e che il sito fa pur assai varietá e naturalitá, è chiaro anche ne’ corpi morti nuotanti colla faccia al cielo secondo furo nell’utero materno etc. Assai averia che dire; e ne fei sei libri e spurgai la superstizione. In questa dottrina si procede per scienza e per coniettura e per sospizione: distinguendo non s’erra troppo, sia detto con sopportazione. All’ignoranti non parlo così libero, ma alli savi chi riceveno meglio le riprensioni che l’adulazioni, o correggeno a vicenda il riprensore. Ed io tengo sempre in me quel principio del Vangelo: «quaecunque vultis ut faciant vobis homines, et vos facite illis etc.».
Resto al suo comando, e prego, quando manda qualche cosa fuori, ch’io sia delli primi ad averla per via del principe nostro inclito e del signor Bartolino che l’inviará questa. Il signore Dio la conservi per benefizio universale. So ch’occorrendo col granduca, fará etc. Dell’offerta di denaro che mi disse il Tobia, la ringrazio; tengali per sé. Io non posso offerir a lei se non affetto e quel poco di fatica che m’è permessa dall’arcasinitá a cui per li peccati della gioventú Dio mi sottopose etc.
[Napoli,] 8 di marzo 1614.
T. C.
Roma, in casa dell’illustrissimo Cardinal [Bartolomeo] Cesi.