Lettere (Campanella)/XLVIII. Al cardinale nipote Francesco Barberini
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XLVIII
Al cardinale nipote Francesco Barberini
Chiede di venire in Roma per parlare a’ superiori ed al papa.
Mi vien avvisato che trattandosi della restituzion di me alla religione Vostra Signoria illustrissima e reverendissima abbia detto ch’io sto meglio dove sto per l’invidia e persecuzion che si può temere da’ frati miei stessi: questo è pensiero in sé prudente assai ed in me pietoso.
Del che assai la ringrazio e rispondo ch’io meglio desidero morir in casa di san Domenico travagliatissimo che dove sto regolatissimo. E di piú io pretendo venir in Roma a parlare a’ superiori ed a Sua Beatitudine; e son certo che supererò tutta l’invidia con quelle grazie che Domenedio m’ha dato, rilucendo la sua divina luce per me non poco a gli occhi di santa Chiesa. Di questo può assicurarla la lista dell’opere mie, e la divina providenza ch’a qualche fine m’ha conservato; al quale giá ho perfezionato tutti i mezzi.
Mi dicono anche che Vostra Signoria illustrissima avendo parlato al padre generale che scrivesse a Spagna de parte la religione, lo trovò duro, ed altrimenti informato di quel che dicono le lettere di Spagna a me venute: che però diffida etc. Questa risposta è principio di quel che Vostra Signoria illustrissima prediceva, ma non deve trattenere Vostra Signoria illustrissima a non proseguire. Perché di lá ci son altri avvisi piú freschi, e dalli consiglieri di stato: e contra me non han cosa rilevante dopo le diligenze di venticinque anni fatte da nemici, ed io stando in man della parte contro il canone pastoralis De sententia et re iudicata in Clementinis; e di piú si è stampata due volte la Monarchia di Spagna fatta da me e col mio titolo in Germania, ed altre opere chi assai ben chiarirò gli spagnoli che io sono innocente e che merito premio non pena da loro.
Ed il nuncio passato, monsignor Massimi, dice che quelli di Spagna non son troppo informati della causa, e che saria meglio trattar col viceré di Napoli; ed io dico che mi basta ch’il re comandi si faccia di me rigorosa giustizia, perché altro non pònno fare che rimettermi a’ superiori: sí perché non han processo contro me, e li fiscali l’han perduto o brugiato, come sa il Cardinal Borgia, che non lo trovò quando mi volle liberare; sí anche perché sono scomunicati che mi tengono con un breve sorrettizio del santo papa Clemente VIII, dove esposero ribellione. Del che in me s’è visto il contrario; e tutti furon liberati dopo che fu rimessa la causa ad ius et iustitiam; ed innanti nissun morio con pena di ribelle, ma quattro banditi per far apparenza che li falsi e scomunicati processanti avessero salvato il regno. Di piú il padre generale deve fare il suo debbito, e come buon pastore cercar la sua pecorella e non diffidare, quia «cecidit ira Dei super filios diffidentiae», et «nonne duodecim horae sunt dieiI». «Agnosce vultum pecoris fui».
Scrivo a Sua Beatitudine e raccomando a Vostra Signoria illustrissima la ragion mia coram Deo e li prego dal Signore ogni felicitá.
Napoli, 13 agosto 1624.
Di V. S. illustrissima e reverendissima |