Lettere (Andreini)/Lettera LXXIII
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miseri sensi nol mi vietassero, i quali sentendo troppo grave il martire, mi fan creder, ch’io non sia morto, non potendo un morto sentir dolore. S’io m’imagino d’esser vivo, à questo mi si fà incontro, che uno, che sia senza cuore, e senz’anima, come son’io non può vivere, quando mi sento arder à parte à parte, dubito d’esser trasformato in un’ardentissimo fuoco, e da questo mio dubbio, non potrebbe alcun rimuovermi, se non fossero le abbondanti, mie lagrime, le quali havrebbono già potuto affatto estinguermi, quand’io fossi stato semplicemente fuoco; così misero son io, per voi, in forse della mia sorte, non sapendo ben distinguere, s’io son morto, s’io son vivo, s’io son fuoco, od altra materia. Chi provò mai pari doglia in amore, per sì fieri accidenti? Chi mai trà l’onde orribili d’incessabil avversità fù, com’io sono agitato, e sbattuto? à che s’aggiunge, per l’estreme pene, ch’io sopporto il non poter dire l’oscurità de’ miei giorni, le lagrime delle mie notti, e la miseria del mio stato. Io, io son quel solo, che per tormenti (preminenza infelice) supero qual si sia più tormentato, io, io son quegli cui la vostra crudeltà spaventa, & è pur vero, che mentre io soffro un gran male, io ne temo un maggiore. O noiosa mia vita, ò conditione durissima; ò partito terribile. Io veggo apparecchiarmisi una guerra crudele, nè scorgo da parte alcuna un minimo soccorso. Il mio dolor è grande, e la speranza di terminarlo è così picciola, che appena si vede: tutti i luoghi mi son’egualmente di molestia, e d’affanno, i miei discordi pensieri non hanno mai pace trà loro, e per tanta lor dissensione, vò precipitosamente à far naufragio, con la mia debile, e combattuta Navicella, laquale, poiche non può (perche non volete) ridursi in tranquillo, e sicuro porto, non cura di spezzarti tra gli scogli della vostra crudeltà.