Lettera al canonico Giuseppe Ballario
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LETTERA DEL MISSIONARIO E CAVALIERE MUSSA
Thorshavn, Isole Ferroè, 26 ott. 1857.
Ill.mo Rev.mo Signore,
Coll’indirizzarle la presente sento di adempiere ad un dovere filiale. Imperocchè, se ho qualche esistenza dottrinale, egli è V. R. che me la diede dischiudendomi i fonti del Vero Eterno, ed accendendo in me l’ardore vitale colla scintilla tratta dalla lampada del Santuario, e se sono sostenuto nelle Missioni dalla carità dei fedeli, egli è per mezzo di V. R. che parte di tali sussidii ci pervengono.
Soldato dunque di Cristo Gesù nel campo dell’umanità eretica ed infedele, devo renderle conto del modo in cui adopro e le armi di cui V. R. mi cinse, e le munizioni di cui ci provvede. Io non ho a narrare di quelle meraviglie che si leggono nelle biografie di alcuni santi Missionari, specialmente del Magno Saverio, uomini straordinarii e rarissimi; parmi però aver di che interessare quelle anime benedette che sanno gustare le cose religiose coll’apprezzare le vicende del sacerdozio nomade, e darà anche a quei caritatevoli che concorrono col loro soldo al sostegno delle Missioni, la soddisfazione che il loro obolo non è gittato invano e le loro preci non trovano chiuso il Cielo.
Lascierò per ora da parte i cinque anni che passai in Missione in varie parti dell’Inghilterra, sia perchè questa non apparteneva già più che indirettamente alla Propaganda, avendo già fatto il passo conseguente nel ristabilimento della Gerarchia Cattolica; sia perchè troppo lunga riuscirebbe questa lettera. Mi limiterò dunque al tempo dacchè faccio parte della Prefettura Apostolica delle regioni polari nordiche.
Questa Prefettura comprende la Laponia Scandinava con Spitzbergen, l’Arcipelago Ferroè e l’Islanda (ultima Thule) in Europa, ed il Groenland con tutte quelle terre scoperte da poco tempo e comprese tra il 60° latit. N; il meridiano che passa pel polo magnetico ed il Polo Artico in America.
L’ultima volta che vidi V. R. fu quando io fui di passaggio costì ritornando da Roma e recandomi nella Prefettura. D. Oddenino di S. Paolo era meco. Egli ebbe la fortuna di giungere alla sua meta temporale prima di me. Che il Signore l’abbia accolto al suo seno! Traversammo insieme la Francia, poi, avendo io dovuto andar in Inghilterra per affari della Missione, ci ritrovammo nelle Fiandre. Di là Egli partì per l’Islanda, ed io non ebbi più altra notizia che indiretta di lui, cioè che era ritornato e poi che era passato agli eterni riposi! Io traversai ancora l’Olanda e la Danimarca a corsa, poi, imbarcatomi, ascesi lungo tutta la costiera scandinava, e giunsi così in Laponia, che come dissi, forma parte della Prefettura. Sono lieto di poterle dire che in tutto il Nord scorsi sintomi di moto religioso. Il protestantismo, inventato dall’uomo, porta seco l’impronta dell’uomo, invecchia come l’uomo e come le vesti fatte dall’uomo e per l’uomo. È invecchiato; i popoli sentono il bisogno di cangiarlo come si cangia una veste logora. C’è dunque gran bisogno che le Missioni si estendano, il tempo è opportuno, il frutto è maturo. Se si neglige, un cangiamento si farà egualmente adottando qualche nuova setta, assumendo qualche altro vestimento umano e vi sì soddisferanno così di nuovo per qualche tempo, i sintomi di ciò appariscono già in qualche luogo. È dunque duopo promuovere il più possibile le Missioni affinchè non si perda questa opportunità che Dio ci mostra a vantaggio della sola vera Chiesa.
Nelle carte geografiche non troppo recenti vi è precisamente al 70° lat. N. ed al fondo di un golfo direttamente sotto al Capo Nord, il nome di Altengaard. Il golfo prende il suo nome dal torrente Alten che vi mette foce. Gaard, nella lingua scandinava, significa luogo chiuso e praticabile, e si applica egualmente ad un cortile, ad un giardino od orto cintato, ad un campo assiepato, ad una pianura chiusa da alture. Il torrente Alten conduce seco nel golfo molta sabbia. Nel corso dei secoli ne riempì una parte, ed è il piano sabbioso che cinto da monti chiamasi Altengaard. Sulla sponda sinistra del torrente vi è un piccolo villaggio o riunione di capanne fatte di legno e di terra. È da notarsi che nel Nord, al disopra della Danimarca, si incontra difficilmente una casa non di legno, ed ancor più rara una casa che abbia più del pian terreno, se si eccettuano alcuni punti ove speculatori di gente più meridionale vi hanno stabilimenti mercantili. Il tetto è generalmente coperto di uno spesso strato di terra in cui vi cresce erba, e non è raro il veder animali pascolar sul tetto. Il villaggio chiamasi Elvebakken (Elve – fiume, bakken – l’ascesa; l’ascesa del fiume). Poco distante vi è una casa isolata e la più grossa del luogo. Servì già da spedale ai lepprosi in tempo che la leppra era dominante in Laponia; ma da qualche tempo era lasciata vuota e negletta. Fu comperata per la Missione, ed ivi è la stazione principale della Prefettura in Laponia. La popolazione del luogo, ed in generale in Laponia, è mista, Laponi, Normanni, Svedi, Queini, Finni, ma i due primi elementi sono predominanti. Ecco come il Lapone narra la storia della sua gente. Una volta c’erano due fratelli che vivevano insieme liberamente. Un giorno che pioveva molto non rimasero d’accordo sul modo di mettersi a sosta. Uno preferì ricoverarsi in un buco che trovò nel seno di un monte; l’altro voltò sossopra la barca, la cinse di un argine di pietre e vi si ricoverò sotto. Passato il diluvio, il primo se ne uscì a viver libero al ciel sereno come prima; l’altro raccolse sotto al suo fabbricato tetto delle alghe disseccate, se ne fece un giaciglio ed elesse continuar a vivere in tale suo fisso domicilio. Il primo divenne padre della razza Laponica; l’altro degli Scandinavi. Dagli Scandinavi uscirono poi, come si sa, i Normanni, gli Svedi, i Goti, i Visigoti, i Vandali, ecc. Il re di Danimarca (che è parte della Scandinavia) si chiama ancora adesso re dei Vandali e dei Goti. Torniamo alla Laponia. La vegetazione locale è quanto si può dir misera. Le alpi scandinave, la cui catena scorre tutta la penisola come l’Apennino in Italia, si diramano in ogni direzione in maggiore o minore altezza, e sono per lo più ammassi di pietra nuda affatto o vestita solo di neve. Vi sono elevazioni minori ove si trovano macchie di terra accumulata, le quali sono per lo più vestite di mosse e spesso folte di pini e pioppi, il solo albero che trovisi in coteste regioni.
In alcune valli, specialmente nei golfi, si trovano anche macchie di prato, ma l’erba vi cresce fievolissima. Vicino ai luoghi abitati però, essendovi del concime, si tenta sempre in generale coltivar le patate, ed in alcuni luoghi il ribes, soli raccolti che maturano quasi ogni anno. Di che vive adunque la gente in generale? Di pesce e di renne. La pesca è sì abbondante che, oltre al nutrir i nativi, fornisce ancora il merluzzo a tutta Europa. La carne di renne non è cattiva, anzi è buona quando non si ha altro a mangiare. Il lapone, o è possessore di renni, e ne mangia la carne, ne beve il sangue ed il latte, e della pelle se ne fa vesti, o la vende per comperarsi altri oggetti; o è possessore d’una barca e di reti che gli danno pure da mangiare e da vendere.
In generale sono cristiani, ma cristiani al loro modo. S’immagini: un lapone andava spesso a Trompsö (città all’ovest della Laponia e punto di commercio) a vendere le pelli di renne, e ne riportava il danaro senza comperare mai nulla per la sua famiglia; anzi sotterrava tale danaro in luoghi ove nessuno potesse trovarlo. La moglie ed i figli ne pativano. Un giorno proruppero in rimostranze, e gli fecero formale richiesta di danaro. Egli rispose così: se do a voi altri il danaro che ora posso procacciarmi, di che cosa vivrò poi io quando sarò nell’altro mondo? In generale sono luterani, ma di nome, non di fatto. Per essi Lutero è un santo quasi simile a Gesù Cristo stesso. Siccome io vi giunsi e vi dimorai solo in estate, così non ci vidi ombra di notte, essendochè in estate a tale latitudine il sole non tramonta. Non è però mai calato abbastanza per far regolarmente maturar almeno le patate. D’estate propriamente detta, quando il termometro all’aria aperta indichi più di cinque gradi di calore, non c’è che una ventina di giorni in luglio; ma allora vi è una tale quantità di zanzare arrabbiate, che è una vera molestia. Piantano la loro proboscide ovunque possono, e ne fanno risultare un’enfiatura penosa della grossezza d’un orologio da tasca. È singolare, che tormentano pochissimo i nativi; ma guai allo straniero che vi capita. Io aveva la faccia, la testa, il collo e le mani tutte enfiate e prurienti. La lingua laponica è semplice nella sua tessitura, ma molto difficile agli europei. La lingua scandinava però (danico-normanna-svedese) è comunemente parlata ed intesa.
Affine di rendermi utile alla missione al più presto possibile, mi misi a studiare con ardore la lingua scandinava. Molto mi giovò il conoscere piuttosto bene l’inglese ed un poco il tedesco, poichè le lingue del nord sono tutte in parentela. Così non perdendo tempo anche durante il viaggio, riuscii a poter predicare per la prima volta dieci giorni dopo il mio arrivo in Laponia, e non tralasciai più per quanto potei. La domenica che fu la vigilia di S. Pietro, dopo aver predicato in Norso o Scandinavo, venni ordinato d’andar a visitar Inglesi che hanno miniere di rame alcune miglia distante dalla missione, per vedere se mai il Signore volesse aprir ad essi pure gli occhi alla luce della verità. Si dovevano traversar tre golfi di mare in barca. L’uomo chiamato a condurre la barchetta non essendo troppo pratico dei luoghi, un altro venne pure come guida. Molte difficoltà si presentarono prima d’entrar in barca; ma pure il comando era uscito d’andare, bisognava andare. Quando fummo in mare alla distanza di circa tre miglia dalla sponda, i remi non servivano più contro l’impeto delle onde. Il vento era fortissimo e contrario e le onde ci spingevano ove non volevamo andare. Alfine inciampammo in un banco di sabbia e la barca si piegò sopra un fianco, l’acqua veniva dentro, le onde seguitavano a spingerla ed il pericolo cominciava a farsi serio. Benchè l’acqua in tale luogo fosse bassa; tuttavia non avremmo potuto reggerci in piedi per la forza dei flutti. Se fossimo stati meno di tre, il pericolo sarebbe stato più grave. Riunimmo dunque le nostre forze serrandosi insieme, ed uno calando nell’acqua per ispingere con uno sforzo la barca a galla. Ciò riescì. Appena a galla non pensammo più che a dirigerci verso la sponda più vicina e più facile a raggiungersi; ma ciò fu lungo perchè il nostro andare era così diretto come il camminar di un ebbro per larga strada. Fortunatamente ancora un uomo dalla sponda, essendo stato spettatore del nostro travaglio, c’indicò il punto più approdabile. Ma non potemmo approdar che camminando un poco a piedi anche nell’acqua. Il vento era freddo, eravamo tutti bagnati, e non ne soffrimmo; la stessa mano suprema che ci salvò dall’annegarci, ci salvò anche dall’ammalarci.
Essendosi deciso che si dovessero intraprendere le Missioni nelle altre parti della Prefettura non ancora ottenute, venne assegnato l’Arcipelago Ferroè ad un bavarese mio compagno; e la parte di Prefettura che trovasi in America a me, coll’obbligo di trovarci almeno un compagno. Siccome questo non si poteva trovar tutto d’un tratto, ed altronde per andar nelle regioni assegnatemi c’è una sola occasione all’anno in primavera; così venne combinato che io andassi col bavarese alle Isole Ferroè ad aiutarlo fino alla primavera ventura, procurando frattanto di trovarci ciascuno un compagno. Partimmo dunque di Laponia dopo la metà di luglio e giungemmo in Hambourg prima della metà d’agosto. Quivi sbarcati ed andando per una strada verso l’albergo, m’occorse all’occhio un banco di frutta con cesti di ciriegie e di albicocchi; nei paesi settentrionali maturano più tardi.
Io non saprei meglio esprimere la sensazione che provai a tal vista, che paragonandola a quella che dovrebbe provare un morto che ritornasse in vita. Mi fu un vero colpo di sorpresa, provai una gioia soave in me, non poteva tenermi dal ridere. La sequela fu poi più trista. Quando mi trovai solo, nel silenzio ed oscurità della notte, ritornandomi tale vista in mente destossi in me una catena di pensieri, vedendo come presenti da un lato la floridezza della mia patria, dall’altra l’orridezza delle regioni polari. Quindi una pressante tentazione di ripatriare.
Perchè andrei ancora in quelle orride regioni ove non apparisce traccia della divina benedizione sulla natura? Perchè non me ne ritornerei in patria ove la ricchezza naturale affacciasi d’ogni lato, ed ove l’espressione di tutto e di tutti è un inno continuo al Creatore? Perchè strapparmi al consorzio di persone che sarebbero liete d’avermi vicino per andar fra gente che ha contro di me una prevenzione odiosa? Forse che non posso predicare e lavorare anche in patria? Forsechè i miei concittadini non hanno anche un’anima alla cui salute posso concorrere? Colà tutto è bello, tutto è piacevole, soave, tutto è grande!..... Vergogna! Balzai in piedi, preparai il mio baule ed al mattino per tempo partii per Copenaghen a cercar qualche vascello che ci portasse alle Isole Ferroè. Non ne trovai, si dovette aspettare. Frattanto le Suore di Carità di Copenaghen, che sono tutte savoiarde, mi richiesero di dar loro gli esercizi spirituali che non avevano fatto da due anni ed i preti del luogo non sanno il francese. Accettai. Tre prediche al giorno in francese per dieci giorni mi ristorarono; tali esercizi fecero del bene anche a me.
Quindi fui richiesto di predicar nella chiesa in francese ed in inglese, ciò che feci in due domeniche successive, previo avviso sui fogli pubblici. I cattolici francesi ed inglesi ivi domiciliati vennero a compir i loro doveri religiosi.
Dovetti poscia predicar in tedesco perchè uno dei preti del luogo era assente; ma in questo fui brevissimo perchè non mi sento abbastanza in possesso di questa ricchissima lingua. Questo predicare mi rimise in gamba, perchè sul pulpito io mi sento sempre rinvigorire. Due vascelli che partirono per Ferroè non ci vollero prendere perchè si seppe che eravamo preti cattolici. Aspettando ancora mi misi a scrivere una parabola che contenesse un’idea sostanziale della differenza tra cattolicismo e protestantismo dalla loro origine fino a noi. La materia mi cresceva tra le mani e non potei finirla prima di partire. Un terzo vascello si presentò; fummo più cauti e ci accordammo. Il capitano non s’accorse affatto di ciò che noi eravamo.
Partimmo da Copenaghen il 1° ottobre, benchè il giorno assegnato fosse già trascorso da varii giorni, ma non potendo salpare per mancanza di vento. Il vascello si chiamava Fortuna, un piccolo vascello di un solo albero. Il nostro viaggio che, se avessimo avuto buon vento, non avrebbe dovuto durar più di otto giorni, durò ventidue giorni, ed ebbe tutte le vicende della navigazione nel mar del Nord e della stagione equinoziale. Ogni giorno ebbimo pioggia quasi continua. Talora stavamo del tutto immobili perchè non vi era il più piccolo soffio di vento; tal altra bisognava calar le vele e legar il timone per non pericolare perchè infieriva qualcuna delle tempeste del luogo e del tempo.
Il cabino, della dimensione d’un metro e mezzo cubo, era il ricettacolo per quattro persone; e bisognò quasi sempre starci dentro perchè fuori pioveva, e tenere chiusa la buca d’ingresso e ventilazione, perchè altrimenti vi pioveva dentro; e non star in piedi perchè la testa toccava il soffitto; mangiare, dormire ed il resto per 22 giorni quattro persone in un tale buco! Che odore, accresciuto da quello della materia rigettata pel mal di mare! Ma questa è cosa inevitabile per chi vuol viaggiar per mare ed in luoghi ove nessuno è solamente viaggiatore; ed io aveva maggior motivo di sopportar ciò lietamente in compenso della tentazione sovra accennata.
Soppravvenne però cosa più grave. Il Capitano sbagliò il suo calcolo delle distanze percorse e da percorrersi benchè avesse sempre le carte idrografiche ed il compasso in mano e gli occhi sulla bussola. La notte del 12 al 13 conobbe un po’ tardi il suo errore. Verso sera io uscii un momento sul ponte e diedi, come faccio sempre, uno sguardo intorno a tutto l’orizzonte. Mi parve di scorgere all’estremità dove eravam diretti una linea oscura ed indefinita. «Mi sembra che colà si scorga terra,» dissi: «No, no, rispose il piloto, non è possibile.» A destra a Nord Ovest vidi anche in grande lontananza un oggetto, che col cannocchiale ci accertammo essere un vascello a vela: ma non potemmo scorgere a quale parte fosse diretto. Tutto il resto non era che un elevarsi ed un sobissarsi di montagne acquee, pioveva, il vento soffiava impetuoso, i flutti ergevansi come indomiti cavalli sul nostro corso, ed urtandosi rompevansi con fragore e spumanti. Il nostro vascello guizzava a balzi colla velocità del vapore, ed urtando i flutti, scuotevasi e scrosciava nella sua connettitura finchè non fu del tutto notte. Tale vista aveva il suo sublime e non spiaceva; ma quando fu del tutto notte, il sibilo del vento, il rumore delle onde, le scosse del vascello, il fosforeggiar dell’acqua spumante intorno al vascello che la solcava con violenza, come se fosse stata cosparsa di zolfanelli, era bastante ad infondere terrore. Mi rintanai nel cabino con un involontario presentimento di qualche malanno. Se si rompesse un cordaggio, della maniera che correvamo ed in tale burrasca! se si stracciasse una vela! se quel vascello che vedemmo in lontananza venisse a tagliar il nostro corso e l’incontrassimo, urtassimo nell’oscurità! se quella linea oscura che vidi in lontananza fosse qualche cosa di reale e ci spingessimo contro!
Nemmeno la preghiera non valse a tranquillarmi: lo spirito è pronto ma la carne è inferma. Non poteva dormire. Ad ogni urto di flutti il vascello gemeva come se avvertisse di pericolo. Se si sfiancasse! se si rompesse una costa! Io non poteva dormire. La mezzanotte era passata, la burrasca continuava. Tutto d’un tratto s’ode l’allarme a bordo, quindi un gridare di molte voci ed un correre su e giù sul ponte. M’alzo sul gomito ed intento l’orecchio tutto palpitante; non poteva capire che cosa dicessero.
Dopo pochi istanti s’apre la buca del cabino, e la voce del Capitano ci grida «su anche voi altri ad aiutare, oh là!» Balzo in piedi, mi slancio fuori della buca, e nell’oscurità senza veder nulla dico «che cosa devo fare, Capitano?» «tenetevi pronti a basso, risponde, se fa bisogno vi chiamerò.» Ridiscendo, sveglio il mio compagno che ancora dormiva tranquillamente, e lo avverto della nostra posizione. Incerti, sospesi, palpitanti! aspettavamo. Quanti pensieri, mi s’affacciarono alla mente in quegli istanti! che questo fosse in punizione d’essermi fermato troppo sulla tentazione di ripatriare? Oppure che non fosse una tentazione, ma un’ispirazione buona, un avviso? Che la mia vocazione non sia d’andar a predicare agli Iperborei, e che l’andarci a fronte di ostacoli sia una temerità da non permettersi?
In tali momenti il migliore rifugio è la preghiera; la migliore risorsa, il coraggio: a questi mezzi m’appigliai. Come devono essere penosi i sentimenti di coloro che la società manda a morte mentre sono in salute! come deve essere terribile l’impressione che prova il soldato che in campo ode i primi colpi di cannone e le grida dei primi compagni feriti! Non ho io forse peccati che meritano grave castigo? Non sono io soldato di Cristo?.... S’udì di nuovo alla buca del cabino la voce del Capitano che ci gridò «tranquillatevi, non c’è più pericolo.»
Al mattino seguente tutti i marinai erano intenti a rappezzar le vele che erano lacere come uno stendardo dopo la battaglia. Che cosa fu dunque nella scorsa notte? Il capitano ci narrò che eravamo incappati senza accorgercene fra gli scogli Grief-Skerry che trovansi a 60° 20” lat. N. ed all’Est di Shetland, e che ne eravamo usciti salvi come per miracolo. Se si considera il numero dei bastimenti che ogni anno si perdono in questi mari, pare proprio un miracolo che ne siamo usciti salvi.
Alfine, dopo altri nove giorni di viaggio, ora correndo ora stando fermi come prima, arrivammo a Thorshavn, città o villaggio principale delle 17 Isole Ferroè.
Alla consegna del nostro passaporto si venne a conoscere, che eravamo i Missionari Cattolici, che avevamo già prima cercato di venire. Il Governatore si mise a far faccia seria dicendo che se si divulgasse, egli temerebbe una sollevazione in massa della popolazione. Ma questo ci spaventa meno di una burrasca di mare, poichè agli uomini anche furenti si può parlare; ma i flutti non odono ragione, salvo che Dio volesse concederci di quei poteri straordinarii, che solo concede nell’esecuzione dei suoi più grandi disegni, e che sono straordinarii appunto perchè non sono concessi ordinariamente.
Qui la popolazione è Luterana. Ma sono i Luterani meno Luterani che io abbia mai veduto. In Chiesa hanno sull’altare il Crocifisso e candele; nelle case hanno quadri e statuette di Madonne e di Santi. Domenica scorsa il prete luterano predicò contro di noi in Chiesa. Tenendoci alle istruzioni contenute nell’aureo libro «Monita ad Missionarios,» noi cominciamo dal prepararci in ritiro, e così confidando in Dio e nelle preghiere dei buoni procederemo con prudenza e cautela per non far passi troppo arrischiati.
Ci raccomandiamo dunque alle orazioni di V. R. e di coloro che, avvertiti dalla R. V. vorranno aver la bontà di pregare per noi e per la conversione di coloro che sono fuori della Chiesa; pregiandomi frattanto di raffermarmi con distinta stima ed ossequio.
- Di V. S. Ill. e Rev.
Dev.mo Servo in Cristo
C. L. Mussa D. T.
Miss. Apost.