Le solitarie/La promessa
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LA PROMESSA.
Sedevano entrambi a sghimbescio sui sacchi di stracci accatastati contro il murello della tintoria, di fianco alla fabbrica. Una gran pena era negli occhi di Fresia: occhi lenti e fedeli, simili a quelli d’un cane. Una fredda e risoluta fermezza in tutto il viso di Marco, glabro, duro, coi caratteri della rapacità e della tenacia nell’ossatura sporgente di sotto l’asciutta pelle.
Cenci luridi, sbrendoli filamentosi d’ogni colore traboccavan dagli orli e dalle sbrecciature dei sacchi.
Asfissiante odor di polvere emanava da essi; acre odor d’acidi veniva dalla tintoria. L’opificio vuoto d’operai taceva nella calma grave del mezzogiorno; ma c’era nell’aria la stupefazione di quel silenzio, e un senso d’attesa, un vibrare d’attesa: come se a quel paese di ferro fosse impossibile esistere senza lo strepito, l’ansimo delle macchine in moto.
Grigiastri vapori passavano e ripassavano sul sole, difformandosi, sciogliendosi, ricomponendosi, mutando l’aspetto della montagna e del torrente secondo l’alterna vicenda dell’ombra e della luce.
E Fresia disse, per la decima volta:
— Te ne vai, proprio?...
E Marco, per la decima volta, rispose:
— Il bastimento leva l’àncora giovedì venturo, da Genova.
Gli umidi occhi canini della fanciulla s’invetrarono in un’espressione di smarrimento.
— Siamo in dodici, di queste parti. Viene anche Gianni di Fontanella e Paolo della Guercia: sai, il fuochista della Fabbrica Nuova. Ma tu credi forse che io vada in America per rimanervi un miserabile operaio, come qui?... Nemmen per sogno. Le mie classi le ho fatte, e ho seguito tre corsi di scuola serale. Non so l’inglese; ma lo imparerò. Tutto sta nel cominciar con qualche affare da nulla, in piccolo. Poi.... lascia fare a me. Ogni giorno le cronache dei giornali narrano d’uomini che si costruiron da sè sostanze colossali; ed erano lustrascarpe, commessi di negozio o fattorini di banca. Voglio diventar ricco, capisci?... Non avrò pace, fino a quel giorno. Oh, perdio!... Non si nasce, solamente, signori. Si diventa.
Abbassò un poco la voce, volgendo la testa verso la casa dei padroni, addossata al fianco destro dell’opificio, e donde veniva un gaio acciottolio di piatti.
— Quello lì, per esempio, è nato ricco, forse?... Se l’è creata lui, la sua ricchezza, soldo su soldo, metro dopo metro. Adesso io mi levo il cappello quando passa, e gli dico: Monsù — e lo ringrazio quando, in fin di settimana, mi consegna, in un bel pacchetto di carta, già preparato, attraverso uno sportellino, il mio salario. Ebbene, allegra, Fresia!... Fra quindici o vent’anni, tornando qui, gli voglio dire: Caro amico!... — e domandar se la sua fabbrica è da vendere.
La piccina non aveva compreso, in tutto questo discorso, che la frase: “fra quindici o vent’anni„. Le labbra le tremarono: sporse timidamente una mano a stringere la mano di lui, dura, nocchieruta, con unghie brunastre, larghe e piatte. Egli rispose alla stretta; ma proseguì nel suo pensiero fisso.
— I compagni socialisti!... Già. Comizi, probiviri, propaganda, dimostrazioni, scioperi, il diavolo a quattro, un mare di gesti e di chiacchiere: per riuscire, infine, a guadagnar due o tre lire di più al giorno. Già. Anch’io, per un momento, ho pensato di farmi socialista. Ma che cosa si ottiene?... Che son mai due o tre lire al giorno di più?... Poveri cristi tutta la vita, lo stesso!... C’è, è vero, l’affare della fraternità. Ma ti mette qualcosa in tasca, la fraternità?... e ci credi, tu? Esser solo, bisogna: arrabattarsi, osare, trafficare, farsi avanti coi pugni, coi gomiti: esser solo e volere. E non aver paura di nulla. Nè dei mezzi, nè dei nemici.
— E io, io, intanto, che farò?...
— Tu?... Mi vorrai bene e mi aspetterai, Fresia.
— Oh, io vorrei tanto che tu rimanessi povero, Marco, e ritornassi presto presto, per sposarmi. Oppure mi chiamassi là. Verrei. Pensa, la vita, come è corta.
— Sciocca!... La vita è lunga. E tutto nel mondo è lì, per esser preso da chi lo vuole e lo sa prendere. Capisci?...
No, non capiva. Ma egli la baciò a piene labbra, da padrone, rovesciandole indietro la testina anemica: piantandole quasi un morso nella fontanella della gola, dove l’arteria batteva batteva, precipitosa. E. come ella si abbandonava, scolorita, immemore del posto e dell’ora, la raddrizzò, con gesto rude.
— Li vedi, tutti questi stracci?... — Così dicendo, strappava un ciuffo di cenci dallo squarcio di uno dei sacchi. — Pouah!... Che puzzo!... Fiuta. Che porcheria!... Sai tu donde vengano?... E chi li abbia portati e sporcati?... e a che cosa abbian servito?... Dicono che li passan per la disinfezione, prima di scaraventarli qui. Io, per me, vi sento il tifo, la scarlattina, e tutti i vizi e l’anticristo.... Ma domani saranno ben altro. Domani li metteremo a bollire nella grande caldaia: poi imbianchiranno, poi passeranno di macchina in macchina fino a diventare quella stoffa là — e additò le pezze umide ancora, distese ad asciugar sulle terrazze. — Così è per la ricchezza, Fresia!... Quando c’è, nessuno indaga di che cosa sia composta. Pur che ci sia, pur che si conquisti!... Fresia!... E tu, tu mi aspetterai.
— Sì.
Ella pareva sonnambula. La scosse il fischio del tocco. Marco l’aiutò a scendere dall’alto dei sacchi, baciandola ancora, a tradimento, nel collo. Il portone si apriva: operai ed operaie accorrevano in fretta, urtandosi, stuzzicandosi, ridacchiando. Qualche minuto dopo, ognuno era al suo posto, il lavoro ricominciava la sua canzone brutale e sacra. E il gesto delle macchine e il gesto dei lavoratori si snodavan così esattamente precisi, armonici, suscitati l’un per l’altro, che lo stesso ardore di conoscenza e di volontà sembrava animasse la creatura pensante e la materia disciplinata.
★
I giorni e le notti passarono sull’opificio grigio. La ciminiera continuò a fendere col suo impeto diritto, col suo fischio prepotente le brume delle albe, le luci dei tramonti. La Rovella si cinse di vapori impenetrabili, si ammantò di morbido velluto verde, si fece d’oro e di ruggine, a seconda delle stagioni. Ogni tanto, i piccoli uomini cozzavano l’un contro l’altro in liti rumorose ed inutili, in vertenze fra padroni e servi, in scioperi e serrate livide di minaccia. Allora la Rovella ammiccava in silenzio al torrente, il torrente bisbigliava qualche ironica, misteriosa parola alla fabbrica che rimaneva impassibile, con tutti i suoi occhi aperti sulla vallata, dove altre impassibili fabbriche ergevano le spade massicce dei loro camini. E i piccoli uomini ritornavano in pace.
E fra pace e fra guerra solo le creature invecchiarono, a differenza della terra e delle cose.
I bei capelli neri di Fresia lasciavano ormai trasparire i fili d’argento della quarantina. Nella sua bocca, ch’era stata così fresca e ormai s’afflosciva agli angoli, i denti, trascurati, ingiallivano, scalzandosi. Marco aveva da gran tempo cessato di scriverle: secondo voci varie di emigranti rimpatriati, arricchiva nel Canadà, divenuto più americano d’uno yankee, serrando nel pugno d’acciaio fili di intricatissime reti d’affari. Il suo silenzio non aveva scoraggiata la fedeltà della donna. Della promessa d’un giorno ella s’era fatta nutrimento e vita, unica ragione di speranza, (fosse pur vana), fra l’andare e il venire della spoletta entro i fili del telaio e l’ondeggiar delle litanie nella chiesa, i giorni di festa. Quantunque ognuno fosse certo che Marco non sarebbe tornato più, il sentimento quasi religioso di Fresia fu rispettato; e la tacita creatura dai dolci occhi canini venne a poco a poco considerata come una vedova.
Invece, un bel giorno, Marco tornò. Sbarbato, disseccato, arsiccio nel volto, con rughe amare e crudeli come cicatrici agli angoli degli occhi e della bocca, in perfetto costume inglese a piccoli scacchi fulvi e bruni, discese, con un salto, dal trenino di Biella alla stazione di Valle San Nicolao perduta nel verde, guardandosi in giro per riconoscere i luoghi.
Dalla soglia del caffè, una donna grassa e barbuta lo seguì per un attimo coll’occhio indifferente. Egli prese la stradicciuola ghiaiosa che conduceva al Càmpore, attraversò il ponte sullo Strona, sostò un minuto a fissare il torrente, che schiaffeggiava colle gelide schiume rabbiose i macigni del greto. Sentì, più che non vedesse, il paese, il suo paese: la Rovella alle spalle, aspra e ferrigna come il proprio nome, già livida sotto la minaccia dell’ombra: le colline di fronte col vitifero capo ancor nel sole: e fabbriche e fabbriche: all’orizzonte, su tutto, la punta candida del San Bernardino, con la croce di Fra Dolcino nitidamente intagliata nell’azzurro.
Dal Càmpore a Valle Mosso passò fra schiere d’operai che tornavan dal lavoro. Nessuno fra gli anziani lo riconobbe. Fra i giovani, non ravvisò alcuno. Tornava, come aveva giurato a Fresia ed a se stesso, ricchissimo: come allora, più di allora, solo.
Prima a New-York, poi a Chicago, poi nell’interno del Canadà, meccanico, fattorino, segretario, inventore, socio in imprese ambigue, sempre sul punto di naufragare e sempre a galla, fulcro e leva di macchinose combinazioni commerciali, — dotato per gli affari di un miracoloso fiuto d’animale da preda, — egli non aveva mai perduto di vista il suo fine. Cocciuto e duttile nel medesimo tempo, aveva saputo destreggiarsi, ed imporsi. Nè vino, nè lusso, nè donne, nè amici avevan potuto entrare a corrompere l’avida austerità della sua vita. Era stato un puro artista della ricchezza; e si era servito, per conquistarla, di tutti i mezzi possibili, fuor di quelli che intaccan troppo il codice. Per conquistarla: non per goderla. Che godere!... Quando il denaro c’è, bisogna contarlo, sorvegliarlo, muoverlo perchè renda ed aumenti, trattarlo come cosa viva che può guastarsi, sfuggire, morire.
Costruttore e schiavo, sacerdote e soldato della propria sostanza, l’amava per se stessa, solida, piena, accortamente disposta e collocata, bottino e signoria magnifica. — Ed era tornato al paese. — Avrebbe, lì, comperato un vecchio lanificio (perchè no, se fosse possibile, quello di Pietro Oddo, ov’egli aveva lavorato in giovinezza?...) — e l’avrebbe rifatto, ampliato, reclutando operai, raddoppiando e perfezionando il macchinario, rinsanguando l’industria, maneggiando da despota affari, uomini, strumenti, terra.
Pietro Oddo, vecchio e stanco, senza figli maschi che potessero succedergli nell’azienda, gli avrebbe forse ceduto volentieri la fabbrica, a buone condizioni.
E tentò.
Una domenica, tre o quattro giorni dopo l’arrivo di Marco, i due uomini, seduti l’uno di fronte all’altro nello studio a piano terreno dello stabilimento, combatterono ad armi uguali il loro astuto duello. Ognun d’essi conosceva e venerava il valore di sua maestà il denaro, per averlo agognato, raggranellato, difeso soldo per soldo. Si rassomigliavano, anche, come un padre rassomiglia al figlio, nella fronte bassa e cocciuta, nel profilo duramente scolpito, nell’astuzia prudente e tenace che caratterizza la razza biellese. Il colloquio fu un capolavoro di finezza, di buon senso pratico, di avvedutezza commerciale. Si misero d’accordo, in massima. L’indomani si sarebbero riveduti.
Come mai, proprio dinanzi al portone della fabbrica, grigia sotto il cielo grigio nell’afoso vespero domenicale, Marco si trovò a viso a viso con Fresia?... L’aveva visto entrare, l’aveva atteso fuori, forse. Ed egli ebbe in quell’attimo, rivedendola, la certezza ch’ella era per lui come gli occhi nella fronte, come il sangue nelle vene: non vi si pensa, perchè esistono in noi.
Si salutarono, con semplicità. Presero, a paro, la tortuosa stradetta che conduceva, salendo, al canton Viole. Nessuno in giro: le donne a vespro, gli uomini all’osteria.
— Sei sempre stata bene?... — chiese Marco, pacatamente.
— Sì. Ma ora son sola. Mia madre è morta. Tu sei dimagrato, Marco.
Nemmeno la più timida allusione al suo silenzio di tanti anni, alla promessa ch’egli forse non ricordava o non voleva ricordar più, alla ricchezza che li separava, massa opaca ed informe.
Ma esisteva, veramente, quella ricchezza?... Oppure non pareva che nulla, nulla fosse fra loro, neanche l’aria, tanto si sentivano spogli ed ignudi, e trasparenti l’uno all’altra?... Da quando non s’eran rivisti?... Dal giorno prima?... No, da vent’anni. E Fresia aveva la bocca floscia, la pelle sfiorita, e qualche capello bianco. E Marco aveva sul viso e nell’anima l’inaridimento prodotto dalla vita violenta e rapace. Tuttavia ella era la donna unica, per lui: quella che si può gettare in un angolo come cencio vecchio, e per tanto tempo non si riaffaccia nemmeno alla memoria; pure, in disparte, in silenzio, umilmente, fedelmente, aspetta. Se non fosse tornato, lo avrebbe atteso sino alla morte. Ed era ignorante e rozza, fatta anche in questo per lui, che non possedeva altra scienza se non quella del guadagno. E portava negli occhi canini, nella carezzevole voce sommessa, nella tenuità devota della persona ciò ch’era necessario al riposo dell’esistenza di lui, sempre all’erta, in armi, in vedetta, solo risonante del metallico suono delle monete. E non chiedeva nulla: l’avesse lasciata lì, all’angolo della strada, brutalmente, vi sarebbe rimasta senza protestare.
La guardò a lungo: attraverso il lavorio del tempo, restava in lei intatto il tipo, l’indescrivibile segno di fisionomia che aveva chiamato ed acceso il suo cuore ventenne. Per quel segno immutabile ella era immutabile ai suoi occhi, simile alla casa in cui si crebbe, alla terra ove si è nati.
E fu con la calma di colui che riprende il filo d’un discorso interrotto qualche minuto prima, che Marco rivolse alla donna, nè triste nè lieta, queste parole:
— Sto per comperare la fabbrica di Pietro Oddo. Quando sarò il padrone, ti sposerò.
Fresia tacque. E continuarono la strada.